Con gli italiani chiusi in casa, il governo va alla resa dei conti. In Europa, con gli Usa di Biden, in Parlamento. E rischia di infrangersi nelle contraddizioni

CONTE-jpg

Terminato il Lost Christmas della nostra vita, il Natale smarrito, siamo al passaggio di anno delle incertezze. Sul fronte sanitario, la corsa ai vaccini si accompagna alla scoperta del virus mutante che per qualche ora ci riporta indietro di un anno esatto: dodici mesi fa preoccupò la notizia di un contagio che arrivava dalla Cina, oggi è la Gran Bretagna a essere isolata. Sul fronte economico, l’incognita è il rimbalzo 2021 dopo il grande crollo dell’anno che si chiude. All’incertezza globale, l’Italia aggiunge una crisi di governo strisciante che è la somma di due debolezze. La debolezza del premier Giuseppe Conte e la debolezza dei partiti della maggioranza, il Pd, il Movimento 5 Stelle, Italia Viva, i cui leader Nicola Zingaretti, Luigi Di Maio e Matteo Renzi vorrebbero per ragioni diverse dichiarare esaurita la stagione di questo governo, ma non hanno una strategia per il dopo. L’unico difensore granitico della coalizione è il piccolo partito di Roberto Speranza che accumula visibilità e potere inversamente proporzionali al consenso.

Alla vigilia di Natale, Renzi ha minacciato l’uscita dal governo delle sue ministre Teresa Bellanova e Elena Bonetti. Sembra una accelerazione modello Matteo Salvini al Papeete dell’estate 2019, ma Salvini voleva andare a votare e fu ingenuo a pensare che bastasse chiederlo per ottenerlo, Renzi al contrario vuole mandare avanti la legislatura e ingenuo non è. Punta a essere il protagonista della fase che porta all’elezione del presidente della Repubblica, mancano solo dodici mesi e qualche settimana alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella. Zingaretti vorrebbe andare a votare subito, come afferma in pubblico anche il ministro Dario Franceschini, regista (quasi) invisibile della tela che portò alla nascita del governo Conte due. Ma sanno che con questa legge elettorale, il Rosatellum, significherebbe consegnarsi, nella scelta delle candidature, a una poco gioiosa macchina da guerra, con Di Maio e, ancora lui, Renzi. E poi il Paese alla destra.

Tre mesi fa abbiamo votato per il referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari: hanno vinto i Sì e amen, la Camera sarà di 400 deputati e il Senato di 200 senatori. Zingaretti accettò di appoggiare il taglio voluto da M5S in base agli accordi di governo, rassicurò che in cambio aveva ottenuto una nuova legge elettorale e alcune modifiche costituzionali: il diritto di voto al Senato per i diciottenni, come per la Camera, l’abbassamento della età per essere eletti senatori, a 25 anni, come i deputati. Furono presentate agli elettori del centro-sinistra come condizioni irrinunciabili, ma nulla è successo da allora. Di conseguenza, si votasse oggi, la legge elettorale costringerebbe i partiti ad allearsi nei collegi uninominali. Nel 2018 la destra fece il pieno dei collegi al Nord, ma nel centro-sud il Movimento 5 Stelle arrivò primo quasi ovunque. Oggi se il Pd e M5S (più la sinistra di Speranza-Fratoianni, i renziani di Italia Viva e Azione di Calenda) andassero ognun per sé, consegnerebbero al centro-destra unito (Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia più qualche altro gruppuscolo) quasi tutti i collegi meridionali. Oppure i partiti dell’attuale maggioranza che si sono appena frantumati in una disastrosa crisi di governo nel pieno dell’emergenza pandemia, dovrebbero poi ritrovarsi insieme per scegliere un solo candidato per collegio che prenda i voti degli elettori dem, grillini e renziani. Gli stessi partiti, poi, che a Roma non riescono a trovare un candidato comune per il Campidoglio da contrapporre all’immacolata (sul piano giudiziario) Virginia Raggi.

Un pasticcio. Reso ancora più grave dall’impossibilità di scegliere i parlamentari: un’altra promessa mancata dei sostenitori del Sì! I capipartito, primo fra tutti Luigi Di Maio, e i gazzettieri quotidiani sostenitori del taglio dei parlamentari hanno mentito agli elettori: i futuri eletti saranno di meno, meno autorevoli e più ricattabili da un pugno di mezzi leader che se li saranno nominati uno a uno. Sparite le polemiche sul Parlamento dei nominati e sui premier non eletti dal popolo (si chiamasse Conte?). Si scherzava.

C’è un’altra modifica della Costituzione mancata, sembra di forma ma è di sostanza: il numero dei delegati designati dalle Regioni che votano per il presidente della Repubblica. Per l’attuale articolo 83 della Costituzione sono tre per regione e uno per la Valle d’Aosta: in tutto 58. Se si votasse con un nuovo Parlamento sarebbero quasi il dieci per cento del collegio elettorale, 58 da aggiungersi ai 600 parlamentari, un peso decisivo. Ma anche nell’attuale Parlamento, ancora di 945 componenti tra deputati e senatori, con quindici regioni su venti sono a maggioranza di centro-destra, potrebbero fare la differenza.

Ecco perché le elezioni anticipate sono un’arma scarica. Ma lo è anche la crisi di governo come la sogna Renzi. Mario Draghi è una riserva che non va strumentalizzata, trascinandolo nella polemica quotidiana. Come il fisico Roberto Cingolani, citato da Renzi nella lettera a Conte, autore di un progetto di digitalizzazione del Paese, consegnato al governo già alla fine dell’estate. Sono nomi che non sono di nessuno, un patrimonio da tutelare, non possono essere strumentalizzati per coprire un’assenza di strategia e il tripudio della tattica.
Quel che resta delle opposte minacce è la necessità di un nuovo modo di governare, se non di un governo nuovo. Il Piano di Ripresa e di Resilienza, la spesa delle risorse europee per la ricostruzione post-covid, vale l’impegno di una generazione politica: come furono il piano Marshall nel dopoguerra o la corsa per entrare nell’euro nel 1996-1998 che vide protagonisti un premier legittimato dal voto degli elettori, il fondatore dell’Ulivo Romano Prodi, e il ministro dell’Economia Carlo Azeglio Ciampi, destinato al Quirinale, di cui abbiamo appena ricordato il centenario della nascita: due uomini di Stato. «Rispetto a quello presentato dalla Francia, in cui sono elencati, uno per uno, gli obiettivi, i fondi disponibili, le autorità amministrative responsabili e il giorno di consegna dei progetti, il nostro Piano è tanto evocativo nel delineare gli obiettivi generali e le necessarie riforme, quanto ancora indefinito nel precisare i singoli progetti, con i costi, i tempi, i metodi e i responsabili per metterli in atto», ha denunciato Prodi (Il Messaggero, 20 dicembre), ironizzando sull’uso nel piano della parola resilienza: «L’autorevole dizionario Zanichelli la definisce: “la capacità di un materiale di resistere ad urti improvvisi sena spezzarsi”. Che sia questo il motivo per cui il governo ha scelto questo titolo così particolare e, in questo caso, così beneaugurante?».

Un nuovo patto di governo, o un nuovo governo, deve partire dalla riscrittura del Piano con misure economiche diverse (nove miliardi alla sanità sono una beffa) e progetti innovativi (il piano Cingolani). Nella logica segnalata da Draghi nel documento del gruppo G30: il debito è sostenibile se finalizzato alla crescita. Su questo punto andranno valutate le iniziative di spesa. Su questo fallisce o ha successo il Piano e la generazione politica che se lo sarà intestato: lo sanno bene Paolo Gentiloni, Roberto Gualtieri, Enzo Amendola, chissà Conte. Il secondo elemento di un nuovo accordo di governo è fronteggiare l’emergenza sociale delle prossime settimane: di ristoro in ristoro il Paese non respira più. Va ricostruito un rapporto con le piccole e medie imprese, i lavoratori, le partite Iva. E i precari che non hanno visto neppure i ristori.

Il terzo punto è la preparazione al primo grande evento politico del 2021, l’entrata in carica della nuova amministrazione americana guidata dal democratico Joe Biden. Un cambio di rotta deciso, anche per l’Italia, sempre più irrilevante nel Mediterraneo, come testimoniano le brutte figure rimediate sui pescatori prigionieri in Libia e in Egitto sulla richiesta di verità e giustizia per Giulio Regeni e di liberazione per Patrick Zaki, disattese. Conte e Di Maio si sono applauditi da soli, nel discredito internazionale.

Se si fa tutto questo, resta lo spazio dell’Accordone politico: elezioni amministrative, elezione del presidente della Repubblica, nuova legge elettorale, fine legislatura. Altrimenti, questo lento tirare a campare basato sulle convenienze (tenere su Conte per costruire una candidatura al Quirinale, per esempio) è solo l’incubazione di una nuova avventura, quando si tornerà a votare. Fu così nel 1992, quando il Caf (Craxi Andreotti Forlani) mirava a spartirsi le cariche istituzionali. I problemi si conoscevano, anche l’ingresso nel patto di Maastricht per l’Italia era una grande opportunità, ma i governanti dell’epoca non seppero coglierla e fu spazzata via. Non c’è più tempo. Il governo è entrato in tensione con la Bce (che ha spedito una lettera durissima sul cashback). Ha perso il suo ruolo nel Mediterraneo. È in ritardo sul Recovery Plan.Questo è il dilemma politico del 2021: o si usa il tempo per costruire una nuova classe dirigente, attingendo anche all’esperienza di risorse ora lontane da ruoli di potere, da Prodi a Draghi, oppure si continua a navigare a vista, contro l’inevitabile iceberg.

Nel Piano di Ripresa e di Resilienza c’è un capitolo che riguarda la parità di genere. È l’aspetto che ci allontana di più dal resto dell’Europa e dell’Occidente. Per l’Unione il 2020 è stato (ancora una volta) l’anno di Angela Merkel. Un modello di leadership politica, flessibile e decisa, rigida nell’imporre le misure del lockdown ma empatica nel comunicarle al suo paese: l’opposto della via italiana, pasticciata nelle disposizioni e distante dalle sofferenze dei cittadini. Per gli Usa il 2021 sarà l’anno di Kamala Harris, prima donna ad arrivare a un “battito di cuore” dalla presidenza degli Stati Uniti come vice di Biden, ma non solo. Nella nuova amministrazione sono donne la segretaria al Tesoro Janet Yellen, la direttrice dell’intelligence che supervisiona la Cia Avril Haines, la ministra dell’Interno Deb Haaland, la ministra dell’Energia Jennifer Granholm, l’intero staff della comunicazione. Donne che hanno alle spalle un solido curriculum politico. In Italia dovrebbe essere naturale che una figura istituzionale come Roberta Pinotti ottenga la delicata delega ai servizi segreti dopo essere stata per quattro anni ministra della Difesa. Ma non lo è.

Per questo dedichiamo il primo numero del nuovo anno al potere delle donnedi cui parla Michela Murgia: la necessità di donne ai vertici dello Stato, dei partiti, delle amministrazioni, delle imprese, delle istituzioni culturali, chiamate ai massimi livelli di responsabilità non in rappresentanza di un uomo, ma del loro merito e capacità. Lo facciamo raccontando di donne calpestate in Etiopia (Giuseppe Catozzella) e nelle nostre città, ma anche di donne di influenza globale come la premier neo-zelandese Jacinta Ardern (Roberto Brunelli) e una nuova generazione di artiste, disegnatrici, fumettiste, che esprimono un nuovo protagonismo femminile (Gaia Manzini). Francesca Mannocchi ci porta tra i profughi al confine tra Bosnia e Croazia,. Gloria Riva tra gli expat, gli italiani fuori dal territorio nazionale che vogliono tornare.

Italiavirus
Tutto cominciò con una nave a Civitavecchia: 2020, il racconto di un anno di pandemia
26/12/2020
Il 2020 si era aperto con tre ricercatrici dell’ospedale Spallanzani che avevano per prime isolato il ceppo del covid. Per un paio di settimane sono state esaltate e poi dimenticate dai media. Le vorrei chiamare di nuovo per nome: Maria Rosa Capobianchi, Concetta Castilletti e Francesca Colavita.
Elena Testi, giovane cronista, ripercorre per l’Espresso l’anno che si chiude: da Civitavecchia, dove a gennaio attraccò una nave con un sospetto caso di coronavirus e sembrò un’eccezione, a Codogno a Bergamo a Milano. Un anno vissuto in prima linea, con lo strumento fragile e essenziale del giornalismo, a raccontare le storie di resistenza al male, a restituire un nome alle persone. Come Tonina, la sconosciuta portiera di Milano che portava la pasta al forno. Il suo cuore si è fermato, ma non il suo ricordo.

Ps. In questo 2020 ci hanno lasciato anche tre intellettuali italiani: Franco Cordero, il giurista che inventò per Berlusconi la definizione di Caimano sulle pagine di Repubblica, l’italianista Marco Santagata, amante di Dante e Petrarca, e il padre gesuita Bartolomeo Sorge, maestro di politica e di spiritualità. Non li dimenticheremo.