Peter Jackson dà la parola alla Prima guerra mondiale. Con un'opera senza precedenti
I suoni, i luoghi, la morte. Le voci dei soldati. La quotidianità dei militi ignoti. Tutto vero. Il regista del "Signore degli anelli" ci catapulta nel conflitto di un secolo fa usando solo filmati d’archivio. E ringiovanendoli come mai è stato fatto prima
Un fiume di soldati sfila davanti alla macchina da presa e tutti, ma proprio tutti, guardano dentro l’obiettivo con il candore e la spavalderia dell’epoca. Qualcuno sorride perfino, esibendo senza pudore denti massacrati dall’incuria, denti che nell’Europa del 1914 erano quasi la norma perfino in paesi ricchi come l’Inghilterra. Poi d’improvviso lo schermo si allarga. Il formato francobollo del cinema primitivo si distende in una visione più ampia, il bianco e nero cede il passo al colore, le immagini già incredibilmente nitide e definite del 1914 ci si stampano sulla retina con intensità senza precedenti.
Perché quello che stiamo vedendo non è un film di finzione, non è la ricostruzione più o meno hollywoodiana di un’epoca irrimediabilmente trascorsa, non è nemmeno uno di quei saltellanti documentari d’archivio che sospendono la Storia in un passato nebbioso, distante e in fondo rassicurante. Nossignori: quegli occhi pieni di vita, quei sorrisi sdentati e ribaldi, quelle trincee anguste e scavate a zigzag per contenere gli effetti devastanti delle granate, vengono dagli archivi dell’Imperial War Museum di Londra. Ma prima di arrivare sullo schermo sono passati attraverso una delle più incredibili cure di ringiovanimento che il cinema ricordi.
Il dottore che con infinita pazienza le ha scelte, rigenerate e montate dando forma a un trascinante romanzo collettivo si chiama Peter Jackson, proprio lui, il regista neozelandese del “Signore degli Anelli”, uno dei massimi artefici di quella rivoluzione digitale che ha cambiato per sempre il nostro modo di fare e vedere i film. Solo che stavolta, anziché dar vita a creature fantastiche ma più vere del vero come il Gollum, la potenza di calcolo dei suoi computer è servita a saturare, colorare, volumizzare, sonorizzare, proiettare alla giusta velocità quelle immagini corrose dal tempo rendendole come nuove. O più precisamente: nostre contemporanee. [[ge:rep-locali:espresso:285447349]] Così eccoci catapultati nella Prima Guerra Mondiale, in mezzo a quei soldati che abbiamo visto arruolarsi con entusiasmo e poi sottoporsi all’addestramento militare con una nitidezza che ci rende capaci di spiare le loro reazioni, leggere i loro pensieri, cogliere ogni loro sospiro, ma soprattutto ascoltare i rumori che avevano ascoltato loro, lo scricchiolio delle scarpe, il nitrito dei cavalli, il fragore dei cannoni, il tonfo dei passi nel fango, ricostruiti dai sound designer di Peter Jackson con profondità minuziosa e travolgente.
Battezzata “They Shall Not Grow Old” (da un verso di Laurence Binyon), questa impresa senza precedenti, anche per impatto emotivo, sarà nei cinema italiani pochi giorni, dal 2 al 4 marzo, per poi proseguire in tour. A poche settimane di distanza, curiosa nèmesi, dalla sconfitta agli Oscar del “1917” di Sam Mendes. Laddove il grande regista inglese cerca l’esperienza “immersiva” attraverso un infinito piano sequenza, Peter Jackson fa infatti tutto il contrario.
Passa più di un anno a visionare centinaia e centinaia di ore di riprese depositate negli archivi dell’Imperial War Museum, e intanto elabora programmi capaci di far letteralmente rinascere quelle immagini, con risultati che superano le sue più rosee aspettative. Poi non solo consulta ogni possibile fonte per ricostruire nel minimo dettaglio il sonoro dell’epoca, ma qua e là decifra le parole dei soldati grazie a esperti di lettura labiale, dunque restituisce perfino la voce a quei militi ignoti. Avendo cura di farli doppiare da attori provenienti dalla stessa regione del loro reggimento per garantire massima sincronia alla loro pronuncia.
Anche se il tocco finale a questa impresa titanica lo danno le voci fuori campo che accompagnano l’intero film, dal reclutamento alla guerra e al ritorno a casa. Che sono voci di veri reduci, registrate dalla Bbc nel 1964, per il cinquantenario del primo conflitto mondiale. Un mosaico di testimonianze rese da un centinaio di persone diverse che ricordano e commentano ogni momento della loro vita quotidiana - i pasti, le trincee, i corpo a corpo, la morte inflitta o sfiorata, ma anche i bordelli, i topi, la mancanza più assoluta di igiene, il fango killer, il gas che arriva in 3 secondi sotto forma di nube verdastra, il tè fatto con l’acqua surriscaldata dei mitragliatori, i tedeschi che una volta catturati si rivelano brave persone, fino alla fine e al ritorno a casa, per scoprire che nessuno ha voglia di starli a sentire o offrire loro un lavoro - trasformando definitivamente “They Shall Not Grow Old” in un’esperienza senza precedenti.
Non che Peter Jackson sia stato il primo a rielaborare filmati d’archivio, tutt’altro. Il lavoro sul “found footage” o comunque su immagini preesistenti e remote è una tendenza consolidata del cinema contemporaneo. Solo che il più delle volte l’intervento del regista (o dell’artista) si concentra appunto sulla distanza, sul tempo trascorso, esasperando, dilatando, interrogando l’intervallo estetico e sensoriale che separa la nostra epoca da quella in cui quelle immagini furono prodotte. Mentre il regista neozelandese imbocca la strada opposta, cancellando le tracce del tempo per portare quelle immagini dentro al nostro tempo.
Un gesto inedito e a dir poco spiazzante che gli immancabili puristi hanno scambiato per mancanza di scrupoli e volontà di manipolazione, tanto da accusare Peter Jackson di essere un novello Frankenstein, sedotto dall’idea di riportare in vita un corpo (un’epoca) cucendo insieme pezzi di origine disparata. Accusa ingenerosa perché solo resuscitando un illusorio presente quel passato ridiventa passato. Ovvero rinasce e prende vita sotto i nostri occhi per poi morire di nuovo, definitivamente, anziché starsene là imbalsamato e a distanza di sicurezza come succede quando le immagini sono troppo rovinate o troppo lontane dalla sensibilità odierna per coinvolgerci senza dover passare da una mediazione di tipo culturale.
Certo, l’operazione non è priva di rischi. Abolendo in qualche modo il lavorìo del tempo, Jackson cancella l’aura della Storia. Ma restituisce anche tutta la sua profondità all’esperienza quotidiana di quei soldati, rendendoceli vicini come non mai. E forse alla fine è proprio questo a fare scandalo per i guardiani dell’ortodossia. La capacità, o il rischio, che quelle immagini tornino a parlare da sole, anche a chi non avrebbe nessuna preparazione per interpretarle come documento storico.
Senza nessun esperto di mezzo a garantire la loro corretta lettura. Una frattura che percorre l’intera storia del cinema, opponendo da sempre chi crede nella forza e nell’autonomia della Settima arte, e chi invece pensa che il cinema, documentario o finzione poco importa, parli solo per bocca dei suoi commentatori ufficiali, capaci di estrarre un senso profondo da quella che altrimenti sarebbe semplice cultura pop.
Anche se curiosamente, almeno in questo caso, le paure dei guardiani dell’ortodossia si sposano alle esigenze normalizzatrici di un mercato che teme come la peste oggetti anomali come “They Shall Not Grow Old”, capaci di sconvolgere le categorie critiche non meno che le coscienze degli spettatori. Dunque subito relegati al rango di esperimenti, curiosità, prodotti eccentrici, estranei alle categorie entro cui si incanala il consumo di cinema.
Morale: benché distribuito in origine da una major come la Warner, un film che potrebbe cambiare per sempre il nostro concetto di rappresentazione della storia finisce nei circuiti d’essai, approfittando delle limitazioni imposte dallo stesso Jackson, che ha vietato di doppiarlo o di proiettarlo nei multisala. Poco importa comunque. Il gesto resta, con tutte le sue conseguenze. Teoriche e pratiche. “They Shall Not Grow Old” dimostra una volta e per sempre che razza di tesori si possano estrarre dagli archivi audiovisivi disponendo di mezzi importanti e di adeguato rigore. D’ora in poi sarà difficile fingere di non saperlo.