Si erano presentati come “rifugiati”, ma erano militanti di Daesh. E hanno imposto nella regione un regime crudele. Finché quelli che dall’11 settembre 2001 erano acerrimi nemici si sono uniti. Per liberare un luogo strategico

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«Sono arrivati cinque anni fa. Dicevano di scappare dal governo pachistano, di essere muhajerin, dei rifugiati, di aver bisogno di aiuto. Seguendo la legge dei pashtun li abbiamo accolti e aiutati, ma pochi mesi dopo abbiamo dovuto abbandonare il villaggio». La barba ben curata, bianca come la coperta avvolta intorno alle spalle, un turbante scuro in testa, Amin Hazimi è un malik, il capo villaggio di Mamand Bagh, uno dei paesi della valle di Mamand, nel distretto di Achin.

Siamo in Afghanistan, nella parte meridionale della provincia di Nangarhar, a pochi chilometri dal confine con le turbolente aree tribali pachistane. Qui la Durand Line, la linea tracciata a tavolino alla fine dell’Ottocento dal britannico Sir Mortimer Durand, non ha valore: sui sentieri passano migranti, commercianti di oppio, contrabbandieri di minerali e pietre preziose. A volte muli carichi di armi. E militanti barbuti. Quelli arrivati alla fine del 2014 in questa valle splendida e isolata, chiusa tra aspre montagne dalle cime innevate, fingevano di essere muhajerin, rifugiati. Ma erano un’avanguardia. I primi combattenti della «Provincia del Khorasan», la branca locale dello Stato islamico. Hanno impiegato pochi mesi a trasformare Mamand nella “valle di Daesh”, anni a reclutare, attaccare e resistere. Il loro quartier generale è stato distrutto soltanto poche settimane fa dopo un’operazione militare congiunta delle forze americane e afghane. Con un alleato insolito e non dichiarato: i Talebani. Il movimento contro cui nel 2001 è stata inaugurata la guerra al terrore degli Stati Uniti e con cui il 29 febbraio l’amministrazione Trump ha previsto la firma di uno storico accordo di pace.

«L’operazione è stata un successo, ringraziando Allah. Oggi controlliamo l’intero distretto. La sconfitta di Daesh è definitiva», ci dice con aria trionfante Shafiqullah Sadat, il governatore del distretto di Achin. Il suo ufficio è al pianoterra di un edificio di due piani di fronte alle mura di una vecchia fortezza, nel centro amministrativo di Achin, a chilometri di distanza di sicurezza dalla valle di Mamand. Nell’ufficio ci sono un letto, un armadio in legno, una serie di cuscini lungo le pareti dai colori pastello. Il governatore solleva uno dei tappeti e ne estrae alcune pagine spiegazzate. È la lista dei jihadisti che si sono arresi, insieme a mogli e figli. «Più di 700 in pochi giorni», nota Sadat scorrendo la lista. «Ci sono afridi dai due lati del confine, afghani del Kunar, stranieri da Iran, Uzbekistan, Turkmenistan, Cecenia, India, più qualche arabo. La maggioranza però sono pachistani». Capelli lunghi, occhi scuri, volti scavati, nel piazzale fuori dall’ufficio del governatore ce ne sono una quindicina, sorvegliati da poliziotti stanchi e nervosi. Sta calando la sera ed è sparita una pistola. «Non ci si può fidare, non farti ingannare», consiglia un poliziotto. Gli uomini di Daesh hanno abiti consunti, molti le braccia fasciate o le stampelle. Parlarci è vietato: «serve il permesso della Nds», i servizi segreti di Kabul.
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Il distretto di Achin è stato conquistato all’inizio del 2015 da un drappello di militanti pachistani, perlopiù delle “agenzie tribali” di Khyber, Orakzai e del Nord Waziristan, insieme ad afghani delle province orientali di Kunar e Laghman. «Hanno scelto la valle di Mamand perché è facile da difendere e abbastanza estesa da ospitare campi di addestramento e depositi di armi», ci spiega al telefono Antonio Giustozzi, autore del libro The Islamic State in Khorasan (Hurst 2019). «Nel 2014-2015 lì c’erano i Talebani pachistani, alla ricerca di un nuovo sponsor: lo hanno trovato in Daesh». In quel periodo il panorama jihadista di Nangarhar non è del tutto controllato dai Talebani afghani (altra cosa rispetto ai cugini pachistani). Molti combattenti salafiti vengono attratti dal settarismo dei jihadisti di Daesh. Che dicono di combattere per una fede più pura di quella dei Talebani, di scuola Hanafi. Di essere loro a praticare il vero Islam.

«Ci dicevano che non c’era alternativa al Califfato, ma in nome dell’Islam ci hanno tolto ogni libertà. L’Islam proibisce la crudeltà, mentre loro sono stati spietati», ricorda malik Hazimi. Attorno a lui c’è un drappello di uomini. Si alternano nell’elencare le brutalità subite. Case bruciate, scuole chiuse, matrimoni forzati, punizioni esemplari. Omicidi arbitrari. «Siamo fuggiti e tornati solo pochi mesi fa. Ma molte famiglie sono ancora lontane». Vessati e repressi da quelli che si presentavano come muhajerin in cerca d’aiuto, gli abitanti di Mamand Bagh hanno trascorso anni nei campi profughi. Non sono gli unici, nella valle di Daesh.

«Daesh ha confiscato le nostre case e abbiamo vissuto da sfollati per 4 anni», racconta Razab Gul, un quarantenne del villaggio di Bizo Dag, qualche chilometro più a sud, verso il confine con il Pakistan. Da un lato la catena montuosa dello Spinghar, dall’altro campi coltivati e sparute case a un piano: un’unica strada conduce a Bizo Dag, una stretta striscia di terra sottratta alla roccia. «Ecco le loro postazioni! Combattevano da lì, su quella collina», segnala Razab Gul puntando lo sguardo verso un lato della montagna imbiancato da un’ampia striscia di talco.

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Punto strategico di transito per armi, combattenti, droga, il distretto di Achin è ricco anche di minerali e risorse naturali. Si stima che custodisca 1,25 milioni di tonnellate di talco, oltre a depositi di cromite e magnesite. «Hanno scelto quest’area per i soldi: ci sono ferro, marmo e altri minerali. E ci sono anche i shawqanai: i pinoli rendono bene», sostiene Razab Gul, che come molti si arrangia, raccogliendo pinoli per gli intermediari del mercato di Jalalabad, capoluogo della provincia. «Non abbiamo dottori, non ci sono cliniche né scuole. I bambini fanno lezione all’aperto. Non c’è una strada asfaltata, non c’è acqua potabile, non c’è neanche una diga per portare acqua ai campi, dove capita ancora di trovare le mine», lamenta Jalal. Della sua età non è sicuro, «forse 60 anni», ma è certo che il suo villaggio non sia più quello di prima: «su 1.000 famiglie che vivevano qui, solo 600 sono tornate. Non è facile ricominciare dopo Daesh».

«Guarda le mie mani. Ho lavorato quattro mesi per ricostruirmi casa da solo. Era stata distrutta nel conflitto. Per anni abbiamo vissuto nei campi rifugiati». Sguardo serio e mani callose, Zarlal è un contadino di 45 anni. Vive a Mandatay, un villaggio di poche case alla fine della valle, dove la strada sterrata si interrompe. Oltre, solo sentieri e mulattiere. «Dicono che Daesh è finito, ma non c’è sicurezza. E nei posti liberati ora ci sono i Talebani». Il villaggio sembra disabitato. Sotto l’abitazione ristruttura di Zarlal, i ruderi di case distrutte. Panni ammucchiati su pietre divelte. In una nicchia, una copia del Corano, il libro sacro. «Gli uomini di Daesh non hanno rispetto di nulla», commenta un ragazzo avvicinando al volto il Corano, prima di baciarlo.

Da un sentiero compaiono due uomini armati, guidati da un quarantenne dallo sguardo sveglio e i modi decisi. Si fa chiamare comandante Abasin e dirige una delle cosiddette “forze di rivolta popolare”, le milizie finanziate dai servizi segreti afghani in funzione anti-Daesh. «Continueremo a difendere la nostra terra a costo della vita, ma ci servono armi e soldi: lo stipendio non arriva da tre mesi», lamenta Abasin. Dice di aver combattuto «per due anni contro i Talebani e contro Daesh, perché entrambi fanno la guerra al nostro governo e quindi sono nemici», ma traccia una differenza: «i combattenti di Daesh sono più crudeli, spietati. Uccidono senza ragioni, distruggono le case dei civili. I Talebani si comportano meglio». È una distinzione che fanno molti qui, nella valle di Daesh. E anche altrove.

«È vero, i Talebani hanno contribuito alla sconfitta di Daesh», ammette Attaullah Khogyani, il portavoce del governatore di Nangarhar, nel suo ufficio di Jalalabad. Nega però qualsiasi coordinamento operativo con i Talebani. E rivendica il ruolo centrale delle forze afghane. «Siamo riusciti dove gli americani hanno fallito. Ad Achin è stata sganciata la madre di tutte le bombe, ma senza effetto. Ora invece l’area è libera».

Il 13 aprile 20017 il presidente Usa Donald Trump ha autorizzato l’uso della più potente bomba non nucleare mai usata in combattimento. Undici tonnellate su un complesso di tunnel e cave nella valle di Mamand, ad Asadkheil. «La bomba è caduta lì, tra quelle due montagne, dove la terra è annerita», ci aveva mostrato poche ore prima Sharifullah, un residente di Shadal Bazar, mentre passavamo per Asadkheil. «Ma Daesh ha resistito per altri due anni». Per sconfiggerlo ci è voluta un’operazione militare di 7 settimane. Forze speciali americane e locali, uomini della Polizia di frontiera afghana e dell’esercito, forze di rivolta popolare, oltre ai bombardamenti aerei. E al contributo dei Talebani, che nella «Provincia del Khorasan» vedono una minaccia. Come gli americani.

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Tra i punti dell’accordo di pace tra i Talebani e Washington c’è l’impegno degli studenti coranici a continuare a combattere contro lo Stato islamico. È l’esito paradossale della guerra al terrore. Il definitivo passaggio degli eredi di mullah Omar da antagonisti ad alleati degli Usa. Il nemico comune, lo Stato islamico, potrebbe capitalizzare lo scontento per l’accordo dei militanti più radicali, o di quelli che ne trarrebbero meno benefici. «Daesh ci lavora da tempo. È una delle ragioni per cui mullah Haibatullah Akhundzada», il leader degli studenti coranici, «ha deciso di combattere così decisamente contro Daesh. Se indebolito, Daesh non potrà attrarre tanti Talebani», ci spiega Antonio Giustozzi.

Khogyani, il portavoce del governatore di Nangarhar, è più netto: «Daesh è un gruppo straniero, imposto dall’esterno. I Talebani hanno sostegni finanziari stranieri, ma la leadership è afghana. Qui hanno governato. Fino a quando ci combatteranno, li combatteremo. Ma siamo pronti ad accoglierli nella società». Quanto al ritorno di Daesh, Khogyani si mostra sicuro: «dopo l’accordo non ci sarà alcun passaggio di combattenti dai Talebani a Daesh. Perché Daesh è già sconfitto, una volta per tutte».