Gli artigiani della moda si convertono alle mascherine: «Ci salverà solo la qualità»
Per non cedere alla crisi dell'emergenza in Toscana le aziende legate alle grandi griffe puntano alla produzione dei dispositivi di sicurezza
C'è chi per salvare l’occupazione e non cedere alla chiusura della filiera ha subito convertito la produzione o inaugurato nuove linee iniziando a fare mascherine da donare al proprio territorio. A Prato e a Pisa si stipulano protocolli per sostenersi a vicenda e non perdere i fatturati immediatamente precedenti all’emergenza, anch’essi bloccati insieme alle commesse. Altri, in attesa del 3 maggio, già si riuniscono per cambiare il “comparto moda”, le cui criticità strutturali sono emerse in tutta la loro forza e non più rinviabili. Ma per tutti gli artigiani toscani della moda l’appello a governo e sistema economico è uno solo: “ripartiamo dalla qualità italiana, sarà lei a salvarci”.
Micro imprese e distretti storici legati alle grandi griffe rendono un unicum il tessuto produttivo della regione, adesso tra i più colpiti dal lockdown previsto dalle misure di contenimento del Coronavirus e, secondo CNA-Federmoda, anche il meno “compreso” e adeguatamente sostenuto dagli aiuti economici previsti dal decreto Cura-Italia. Sono 11mila le aziende artigiane del comparto, 1.873 imprese tessili, 4.857 di confezioni e 4.258 pelletterie. Prima del Covid-19 lavoravano tutte conto terzi per i grandi brand e i 42 mila addetti in totale dell’intero comparto tessile-abbigliamento puntano a salvare la stagione produttiva ma soprattutto vogliono sopravvivere.
«Noi siamo una pelletteria, facevamo borse. Ho chiesto al mio comune se aveva necessità di mascherine, e da lì è partito tutto. Le confezioniamo dal 17 marzo, dalle cinque alle 10.000 al giorno» - spiega Roberto Petri titolare della Petri & Lombardi di Bientina, in provincia di Pisa. E’ operativa la metà dei 22 dipendenti. I costi vengono adeguati in base a tipo di confezionamento e quantitativi. Una scelta che hanno fatto anche altri avviando le vendite in base alle disposizioni dell’art.16 del “Cura Italia” del 17 marzo: mascherine filtranti, prive di marchio Ce ma dentro gli standard di sicurezza.
«Noi le mettiamo a 1 euro, 1.20 e sono al prezzo che compete a noi. Non possiamo concorrere con la Cina, che produce con macchinari specifici su scala industriale fino a 150.00 pezzi al giorno» - prosegue Petri. Le sue sono le mascherine a tre strati in tessuto non tessuto, secondo le indicazioni fornite dalla Regione Toscana, quando a metà marzo il governatore Enrico Rossi lanciò l’appello alle imprese ferme per il Covid-19 a donare dispositivi di protezione da distribuire subito a medici, infermieri e personale sanitario, e ad aumentare la produzione regionale di mascherine. Oltre ai tre fornitori principali capaci di produrre insieme fino 100.000 pezzi al giorno compatibili con i requisiti di sicurezza Ce e testati dall’Università di Firenze, risposero all’appello Gucci, Prada, Ferragamo e decine di piccole imprese. La Sanser srl di San Miniato, a Pisa, già prima del fermo produttivo aveva riattivato le macchine da cucire di 40 dipendenti, prima per produrre mascherine filtranti ad uso interno e poi per donarne 2.500 a Comune, associazioni, volontari, Protezione Civile: «Ora stiamo aspettando l’ok dell’Istituto Superiore di Sanità per produrre quelle chirurgiche certificate» - spiega il titolare Marco Sereni, che produceva pret a porter per l’alta moda. «Abbiamo investito molto per ripensare gli spazi interni e garantire la sicurezza, ma i nostri dipendenti hanno accolto da subito l’iniziativa. Possiamo produrre 50 mila mascherine a settimana. Proveniamo da una cultura artigiana, le mascherine sono fatte con la macchina da cucire e le prime settimane sono state una rimessa, ma ci stiamo rimboccando le maniche».
Francesco Viti è il titolare Tris & Co, una delle due uniche attività di lavanderie industriali per tessuti a Prato. Undici dipendenti, chiusa dal 25 marzo e non riconvertibile, la sua è una nicchia che ben spiega la complessità della filiera moda e dei terzisti. «Lo stop è arrivato nel momento che per noi è di massima produzione. Come gli stabilimenti balneari a Ferragosto» - spiega Viti, illustrando due problemi chiave dei contoterzisti. «La vita di un cappotto al negozio inizia un anno prima con un filato. Sono miriadi di passaggi e se scompaio io, si interrompe la catena. Vanno tutelati gli anelli piccoli della filiera». Insieme all’associazione PratoFutura ha firmato un protocollo in cui imprese artigiane, industrie e professionisti si impegnano a garantire i pagamenti. «Dovremmo incassare adesso per un lavoro fatto tre, quattro mesi fa, lavoro che io ho già retribuito ai dipendenti. Ci sono aziende che con questa chiusura non pagano e chi ha firmato si impegna a farlo» - conclude. «E poi veniamo da un sistema che non ci premia, siamo messi all’asta dai committenti che vogliono spuntare il prezzo migliore e per questo siamo in concorrenza con paesi in cui produzione, sicurezza e manodopera non hanno i nostri standard».
Rossella Giannotti di CNA-ASSA, illustra le preoccupazioni dei terzisti di un’altra nicchia, quella dei conciatori di Santa Croce sull’Arno: 6mila addetti, il 98% della produzione nazionale di cuoio per calzature e il 35% di quella di pellame. E’ fermo il distretto famoso per le commissioni da tutti i grandi brand mondiali, pochissime le riconversioni e solo per mini produzione di semplici mascherine filtranti: «Le grandi concerie lavorano appoggiandosi a realtà più piccole per certe fasi della lavorazione. Sono imprese artigiane e con personale altamente specializzato- spiega. Con l’Unione industriali Pisana e Unic, l’Associazione Industria Conciaria ci stiamo anche noi impegnando per sensibilizzare le aziende perché paghino i fornitori. Cerchiamo di mantenere tutto in equilibrio, solo insieme se ne esce». Anche Giannotti ritiene che la crisi industriale legata la Covid-19 apra una riflessione sulla dipendenza che l’Italia ha nei confronti di paesi terzi che forniscono manodopera. E’ questo il tema di fondo della lettera che il presidente nazionale di CNA Federmoda Marco Landi, in cui ricorda il protocollo con cui, in accordo con Confindustria Moda e Sportello Amianto Nazionale, le aziende si sono riconvertite per sopperire alla carenza di dispositivi di sicurezza e risponde alle polemiche legate ai costi di mascherine in Italia: «Compriamo tutti, cittadini e Amministrazioni prodotti al minor costo senza preoccuparci della filiera produttiva che li ha generati, del compenso riconosciuto lungo i vari anelli della catena di fornitura, delle condizioni igieniche, sanitarie e ambientali in cui le lavorazioni sono state svolte».
E conclude: «Il made in Italy porta con sé oltre alla qualità intrinseca dei prodotti l'evocazione di storia e cultura, di valori sociali che dobbiamo preservare da un contesto che individui solo nel costo il fattore di valutazione. Lo scenario internazionale ci porta a ripensare valori e categorie».
Bruno Tommassini, stilista e presidente di Federmoda CNA Toscana spiega che il ruolo del Made in Italy è stato trascurato e non è stato capito e che nessuno “guadagna” con le mascherine. Gli artigiani hanno un valore che viene dalla loro responsabilità etica e sociale in quanto presidio territoriale: “«Sono le api operaie, un anello debole che sostiene le api regine, le grandi griffe. Chi fa davvero, e fa la differenza, sono quelle mani». E sul sistema moda avverte: «Sono d’accordo con quel che ha scritto Giorgio Armani qualche giorno fa: basta con la moda che mangia se stessa, c’è un modo di produrre che non è più umano, rincorrere e anticipare ossessivamente stagioni e produzioni fa perdere valore ai prodotti e valore alla qualità».