Tenere le distanze di sicurezza è impossibile. Per questo il coronavirus fa ancora più paura. E senza colloqui con le famiglie i detenuti affondano nella disperazione. Il cappellano di Rebibbia racconta e denuncia

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Chiudete per un momento gli occhi. Tornate alla notte tra domenica 8 e lunedì 9 marzo, a quelle fiamme che salgono dai reparti delle carceri incendiate, a quegli uomini sui tetti, al fumo dei gas, al clangore degli scudi dei reparti antisommossa, all’eco degli scarponi sul terreno, alle urla, al canto ipnotico delle sirene spiegate. Alle tentate fughe. Ai morti. A quei 12 morti a Modena e Rieti, che si sono imbottiti di psicofarmaci e droghe rubate nelle infermerie devastate per dire addio al carcere al tempo del virus nell’unico modo in cui credevano di poterlo fare.

E poi cercate i frammenti di quella via Crucis di venerdì 10 aprile, quasi esattamente un mese dopo, in una Piazza San Pietro spettrale: li vedete quegli uomini e quelle donne che vengono dal carcere: detenuti, agenti di polizia penitenziaria, volontari, magistrati di sorveglianza, che ne percorrono le stazioni in silente preghiera, dinnanzi al volto sofferente di Papa Francesco che ha voluto loro per celebrare questa Pasqua nella quale la speranza lotta come mai prima contro le tenebre della morte?

E, poiché il carcere inumano causa dolore e uccide la dignità, sentiamo su di noi la vergogna che dovrebbero provare i tanti Javert che considerano tutto ciò come la giusta punizione per chi ha sbagliato? Che restino dove stanno, decretano. E ora ascoltate le parole di quel mondo nelle meditazioni che vengono dal carcere Due Pozzi di Padova: «Tante volte, nei tribunali e nei giornali, rimbomba quel “Crocifiggilo, crocifiggilo!”», dice un ergastolano. «Una vera giustizia è possibile solo attraverso la misericordia che non inchioda per sempre l’uomo in croce», risponde un magistrato di sorveglianza.

Scenari
«Un detenuto infetto può causare una strage»: le carceri sovraffollate in rivolta e il coronavirus
10/3/2020
Dice Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti: «Quella via Crucis ci dice che il mondo del carceri non è altro da noi. E ci richiama a quel diritto alla speranza proclamato dal Pontefice, che era anche il titolo di un volume che gli abbiamo inviato e che è anche richiamato dalla Corte di Strasburgo quando dice che non può esserci condanna a vita senza speranza».

«Credo che i detenuti in rivolta pensassero: se il virus arriva qua dentro sarà una strage», dice chi sta in carcere da una vita, «31 anni, più di un ergastolo», ovvero don Sandro Spriano, 79 anni, da San Salvatore Monferrato, cappellano di Rebibbia, che ha vissuto in prima linea i giorni delle rivolte. «All’inizio l’allarme per il virus dentro il carcere era abbastanza basso», racconta, «sono state le restrizioni alle visite ad accendere la scintilla della rivolta. Infatti cosa chiedevano i rivoltosi? Indulto, amnistia, misure alternative, le richieste di sempre, esasperate dal terrore che se l’epidemia dovesse arrivare in carcere sarebbe una strage. Vedo che ora il ministro Alfonso Bonafede parla di braccialetti per i detenuti. Giustissimo, per carità, ma perché attendono i fatti drammatici come i suicidi di Modena e Rieti (perché di questo si tratta di suicidi) per fare qualcosa? Le restrizioni alla vita sociale per chi già vive recluso diventano insopportabili, l’impossibilità di vedere i parenti diventa un incubo».

Racconta Mauro Palma che nelle carceri in rivolta c’è andato subito: «Quel lunedì mattina a Regina Coeli ho visto uno spettacolo tremendo: cancelli divelti dalle sbarre, il lancio delle stoviglie e gli sputi, mentre si udiva un sordo rumore di fondo, come un rombo. C’era tanta rabbia. Mi affrontavano duri: solo ora vi ricordate di noi? Chi ha la massima responsabilità doveva essere sul posto. Non vorrei che l’infiltrazione mafiosa che in taluni casi c’è stata, penso a Foggia, possa offuscare la comprensione di quanto avviene: le carceri italiane sono una bomba sociale pronta a esplodere. Così quando si è diffuso l’allarme per l’epidemia i detenuti si sono sentiti vittime di una doppia reclusione: quella dovuta alla pena e quella alle restrizioni sanitarie, di cui hanno visto solo divieto ai colloqui, perché le altre norme di sicurezza sono praticamente impossibili da adottare in queste condizioni. Sicché i detenuti si sono sentiti al tempo stesso rinchiusi e indifesi», prosegue Palma.

Al 17 marzo i detenuti erano tornati a essere 60 mila circa, dinnanzi a una capienza di 50 mila, azzerando tutti gli sforzi compiuti dopo la condanna della Cedu del 2013, soprattutto per impulso del ministro Andrea Orlando e del suo direttore del Dap Santi Consolo. Un mese dopo, di fronte al procedere del virus (dati al 14 aprile: 104 contagiati tra i detenuti, di cui 11 trasferiti in ospedale, e 201 tra il personale) siamo a circa 55 mila persone nelle careri italiane. Solo 1.800 detenuti (di cui 350 con braccialetto) sono usciti per andare ai domiciliari grazie alle timide misure prese dal ministro Bonafede (scarcerazione anticipata per chi aveva da scontare fino a sei mesi); gli altri 3.000 circa sono usciti grazie alle misure prese dai magistrati di sorveglianza in base alle vecchie norme. «Negli ultimi giorni, per fortuna, i contagi hanno avuto una crescita limitata, ma all’inizio la progressione è stata esponenziale. Se dovesse riprendere a quel ritmo sarebbe una tragedia ecco perché dovremmo arrivare presto a non più di 47 mila detenuti in carcere».

Naturalmente di tutto questo avrei voluto parlare con il direttore del Dap, Francesco Basentini, nominato dal ministro Bonafede e criticato da tre partiti su quattro dell’attuale maggioranza per non essersi recato nelle carceri durante la rivolta, e gli ho inviato tre domande: come mai le prime misure deflattive sono state prese dopo e non prima che scoppiassero le rivolte? Ritiene che le misure adottate finora siano sufficienti? Pensa che i detenuti siano più al sicuro dal corona virus dentro le carceri che fuori?Questa è stata la sua risposta: «Le carceri non sono un argomento da trattare in tre battute. Contatti il mio ufficio stampa quando avrà il tempo di parlare seriamente del carcere». A parte il fatto che avevo spiegato che avrei dato tutto lo spazio necessario alle sue risposte, lascio a voi giudicare cosa ci fosse di poco serio nelle mie domande.

Conviene allora tornare a parlarne “seriamente” con don Sandro. Chissà se, quando ha messo per la prima volta in un carcere, pensava che ci sarebbe rimasto tutta la vita: «Ci sono entrato per la prima volta nel Natale del 1988 per dire messa insieme al mio amico Salvatore Boccaccio, che era appena stato nominato vescovo e che mi disse: “Qua dentro c’è una pena enorme, perché non cerchiamo di fare qualcosa?”». Da allora non c’è giorno della sua vita che don Sandro non abbia dedicato al carcere: detenuti e detenute comuni, brigatisti e brigatiste, mafiosi al 41 bis. «Sono nato a San Salvatore Monferrato, in provincia di Alessandria, dove non c’era la scuola media e quindi, finite le elementari, per continuare non c’era che il Seminario. Così ci sono entrato bambino a 11 anni e ne sono uscito sacerdote a 23. Per conoscere il mondo a quel punto c’erano tre strade possibili: la fuga, il matrimonio, proseguire gli studi. Ho deciso di andare a Roma dove mi sono laureato in teologia all’Ateneo Salesiano. Poi l’incontro con la scuola. Insegnante di religione al liceo scientifico Archimede che era uno dei più turbolenti di Roma. Prima vicepreside, poi preside. A un certo punto, dal momento che ero iscritto alla Cgil un gruppo di insegnanti di destra mi denuncia come prete comunista e dunque mi viene tolto l’insegnamento. Per due anni ho vissuto grazie alla solidarietà degli amici. Due anni dopo il cardinale che mi aveva cacciato mi chiamò e mi chiese scusa».

Poi, l’incontro con il carcere: «Adesso sono al braccio femminile. Credo che le donne soffrano di più il carcere che è stato disegnato per le esigenze maschili, pensa che fino a qualche tempo fa nel carcere non si trovavano né assorbenti né pannolini. La mentalità del carcere è maschile. Le donne sono più reattive alla sofferenza, non si fanno una ragione del dover rinunciare alla maternità, ai figli».

Il carcere di don Sandro è fatto di incontri che ti segnano. Quello con i brigatisti e le brigatiste: «Ho a che fare con quelli che si definiscono irriducibili. Sono persone che hanno scontato già 34 anni di pena, che hanno riconosciuto i propri errori, ma non vogliono fare nessuna richiesta allo stato, si aspettano che lo stato faccia autonomamente la sua parte. Si tratta di persone generalmente più acculturate della media dei carcerati, sono spesso atei. Ma anche il cuore che sembra più duro e abituato alla violenza può riconoscere i propri errori se trova qualcuno che lo accompagni», dice. Eracconta: «Mi è capitato spesso di accompagnare alcuni di questi detenuti in permesso e molti, mentre eravamo in macchina, mi chiedevano: senti don Sandro, possiamo passare un momento dalla tua chiesa?».

Diverso l’incontro con i mafiosi ristretti al 41 bis, che don Sandro considera inumano e incompatibile con la rieducazione. Con loro il rapporto non è stato semplice: «Pensavano che la messa fosse un atto dovuto, davano per scontato che io la celebrassi. Allora l’ho sospesa. E hanno cominciato a scrivermi i sacerdoti del sud cui i boss si erano rivolti. Non è che io voglia convertire nessuno ma volevo che nessuno pensasse che la messa fosse un fatto scontato e ho ricominciato a celebrarla solo quando ho pensato che avessero capito. Uno dei boss, uno dei capi più importanti, mi disse: “Don Sandro, è la prima volta che qualcuno mi fa pensare al fatto che un omicidio è sempre sbagliato, anche se commesso a fin di bene”. Nella sua mentalità lui ordinava gli omicidi per mantenere l’ordine del suo mondo, ma il dubbio si era insinuato anche nel suo cuore».

Vivere per i più deboli e fragili è fatica quotidiana, rinuncia, generosità. Ma, e ditemi se è poco in questo strano tempo sospeso tra crudeltà e speranza, per don Sandro è qualcosa che riempie la vita: «Vuoi sapere cosa mi rimane di tutti questi anni? Il fatto di aver vissuto sempre in mezzo alla gente: la parrocchia, la scuola, il carcere, il volontariato. Quando giro per Roma, prima o poi, a questo o quel semaforo incontro qualcuno che mi riconosce e mi saluta con affetto. E tanto mi basta».