I democratici per la prima volta nella loro storia non avevano previsto dibattiti sulla consultazione, salvo recuperare all'ultimo secondo. Segno di un partito spaventato che ha ceduto all'egemonia populista
Che gli eredi di Gramsci-Togliatti-Longo-Berlinguer e i discepoli di Dossetti-De Gasperi-Moro-La Pira, ovvero l’attuale gruppo dirigente del Pd, possano apparire presi in giro da un venditore di bibite allo stadio San Paolo di Napoli che per un accidente della storia è diventato ministro degli esteri e da un “capo politico” che sembra uno dei due carabinieri che arrestano Pinocchio, sembra appartenere più alla fantapolitica che alla realtà. E invece, sul finire di un’estate ancora dominata dal Covid 19 e dalle sue conseguenze, col ricordo ancora caldo dell’estate del Papeete e dei pieni poteri, è realmente accaduto.
Giggino ha preso in giro il Pd, fingendo che la consultazione degli iscritti servisse a sdoganare le alleanze quando serviva solo a legittimare la candidatura di Virginia Raggi a Roma, l’unica che il Pd dichiara di non poter mai accettare; Vito Crimi (Vito Crimi Sant’Iddio!) ha preso in giro il Pd, riuscendo persino a dire una cosa sensata, e cioè che non potevano votare candidati che fino al giorno prima erano considerati i peggiori nemici; Giuseppe Conte ha fatto un inutile e tardivo appello all’unità, una cosa di maniera, come l’inamidata pochette che spunta dal suo taschino.
Tutt’insieme, poi, hanno raggirato il Pd
imponendogli il taglio selvaggio dei parlamentari come condizione per fare nascere il governo ma firmando che nel frattempo sarebbero state approvate riforme elettorali e costituzionali che lo rendessero accettabile (come chiesto dal Pd), ma nessuno di questi contrappesi ha visto la luce e difficilmente la vedrà in questa legislatura.
Tutt’insieme, ancora, gli hanno imposto la cancellazione della prescrizione e l’intoccabilità dei decreti Salvini.
Si dirà: ma il Pd ha ottenuto una svolta europeista del M5S. Non è cosi: l’emergenza Covid ha totalmente cambiato i paradigmi stessi cui l’Europa faceva riferimento e dunque, più che l’evoluzione del Movimento c’è stato un radicale cambiamento delle politiche europee cui tutti si sono dovuti adeguare. Quando si è trattato si fare scelte stringenti, come sul Mes, l’anima antieuropea è venuta fuori impedendo al governo di farvi ricorso. Quanto al Recovery Fund, il Pd, con il quartetto Gentiloni-Sassoli-Gualtieri-Amendola, si è spaccato la schiena per portare a casa il massimo, regalando a Conte una vittoria d’immagine (con relativa sfilata sul tappeto rosso insieme alla vera star, Rocco Casalino) ma nulla sappiamo di come quei soldi verranno spesi, però sappiamo che nei ministeri chiave della spesa: sanità, lavoro e istruzione i dem non toccano palla.
E su tutto pesa l’ammonimento di Mario Draghi a fare “debito buono” e non quel “debito cattivo” che è invece la specialità della casa dalle parti dei pentastellati.
In questo quadro è del tutto incomprensibile che il Pd, senza aver mai convocato una direzione o svolto qualsiasi forma di consultazione interna scelga di schierare il partito per il Si e silenzi il dibattito sicchè sembra che il Pd non sia il vaccino contro virus populista e antidemocratico ma che piuttosto ne sia stato contagiato.
La motivazione addotta ufficialmente è che il Pd resta fedele al patto di governo e che comunque si tratta di una riforma che va nella direzione giusta. E allora perché prima dell’ultimo passaggio parlamentare il Pd aveva vincolato il suo sì all’approvazione di robusti correttivi senza i quali, come sostenne il capogruppo del Pd in Commissione affari costituzionali, Stefano Ceccanti, la riforma avrebbe conservato la sua natura qualunquista e populista? «Perché non siamo d'accordo nel trattare la Costituzione come uno spot elettorale. Se la riduzione dei parlamentari non è collegata al superamento del bicameralismo ripetitivo -
affermava Ceccanti in un’intervista a Tiscali del maggio 2019 - si confermano cioè le stesse funzioni e le doppia fiducia per Camera e Senato, o col monocameralismo o con un bicameralismo che raccordi Parlamento e autonomie, abbiamo a che fare solo con uno spot. Le altre democrazie o sono monocamerali oppure la prima camera ha un numero di eletti più alto e la seconda rappresenta le regioni per cercare di ridurre i conflitti tra Stato e Regioni. Qui invece abbiamo a che fare con tagli lineari solo numerici. Tutto sbagliato. Io non so se sia il caso di scomodare il concetto di colpo di Stato. Dico solo che non siamo in una situazione normale né per il rispetto delle regole costituzionali e parlamentari vigenti né per gli effetti concreti delle riforme. Mi sembra che ci sia un'eccessiva sottovalutazione anche da parte di molti costituzionalisti».
Dunque, non essendo cambiato nulla da allora se non il fatto che è al governo con il M5S.
il Pd votando Sì s’inchina dinnanzi all’egemonia populista, immemore dell’insegnamento di George Lakoff, che invitava i democratici americani a “non pensare all’Elefante”, cioè a non restare sul terrreno delle parole e dei contenuti dei repubblicani.
Non era mai successo che il Pd si avviasse a un referendum costituzionale senza una larga e partecipata discussione nelle feste, nei circoli, negli organismi dirigenti.
I dirigenti del Pd hanno paura di aprire un vero confronto interno sul referendum (un solo dibattito alla festa nazionale, aggiunto in tutta fretta dopo la protesta dei sostenitori del No), perché sanno che il loro Sì a un taglio selvaggio rappresenterebbe, come hanno detto esponenti di spicco della maggioranza come Goffredo Bettini che invocato la liberta di voto,
Gianni Cuperlo che ha spiegato su L’Espresso perché ha deciso di votare No e lo stesso segretario Zingaretti, “un pericolo” per gli equilibri democratici proprio perché privo di quei correttivi che il Pd ha chiesto e non ottenuto.
Dunque la posizione per il No di Tommaso Nannicini, di Gianni Pittella, i parlamentari dem che hanno promosso il referendum, e di tanti altri, che all’inizio pareva ultraminoritaria, oggi diventa per il Pd l’opportunità di fermare l’arroganza populista. Il rischio per il governo non viene da una vittoria del No al Referendum che semmai ne rafforzerebbe la componente antipopulista, ma dalla possibile debacle alle regionali il cui impatto non sarebbe affatto attutito da una vittoria del Sì di cui il Pd non potrebbe per nulla rivendicare la paternità. La partita non è affatto chiusa e ora il Pd deve decidere se stare dalla parte della sua storia e della sua tradizione democratica votando No, oppure accodarsi al Sì dei populisti perdendo più che la faccia, l’anima.