Lavoro Molesto
«Il mio capo mi ha chiusa in bagno per fare sesso. Mi sono odiata per non averlo denunciato»
Troppo spesso la vittima di molestie si sente in colpa. Come spiegano le storie di Alice e Valeria, tra le tante che ci stanno arrivando in questi giorni a #lavoromolesto. Denuncia anche tu se hai subito aggressioni, ricatti, minacce. Abbiamo creato uno spazio anonimo per raccontare quello che succede a tante donne, con l’obiettivo di costruire un fronte di resistenza
Alice (nome di fantasia), 26 anni. Ne aveva 18 quando il suo titolare, over 40, l’ha condotta in bagno, ha chiuso la porta e ha provato ad avere un rapporto sessuale con lei. Una collega, per sbaglio, è entrata nella stanza e ha interrotto la scena. Ma non ha dato peso a ciò che aveva visto, e neppure agli effetti che quella vicenda avrebbe creato in Alice. «Né lei né il titolare si sono chiesti se fossi stata consenziente e anche a me non importava. Ho normalizzato quello che è successo il più in fretta possibile perché credevo che nel “mondo reale” fosse una consuetudine avere a che fare con uomini così».
Alice era alla sua seconda esperienza lavorativa, in uno stabilimento balneare del centro Italia. «Rifiutavo i suoi approcci ma non l’ho denunciato. Così le attenzioni, i commenti provocanti, i riferimenti a sfondo sessuale si sono trasformati in veri e propri insulti, offese e forme di frustrazione per me. Odiavo me stessa per non essermi rivolta alle forze dell’ordine». Alice cercava a ogni costo di dare una spiegazione all’accaduto, frugava tra i ricordi provando a isolare i comportamenti che aveva avuto, modi di fare che avrebbero potuto testimoniare le sue responsabilità, o legittimato il titolare ad arrivare a tanto.
«Sono stata troppo permissiva? Ho fatto credere che fossi d’accordo senza rendermene conto? Perché non me ne sono andata subito da quel bagno? Perché, poi, ho sopportato per altri due mesi i suoi insulti?». Domande come queste hanno riempito a lungo la testa di Alice e fatto sì che si facesse carico di colpe che, invece, non sono affatto le sue. «Proprio questi pensieri sbagliati mi hanno spinta a non denunciare, a nascondere quello che era successo, a non raccontare a nessuno come mi sono sentita, a tenere solo per me le brutte sensazioni. Oggi so che i comportamenti sgradevoli non vanno sottovalutati: le parole possono diventare facilmente atti e le molestie sono intenzioni che si fanno azione».
Un anno dopo l’accaduto, l’ex titolare di Alice è morto in un incidente d’auto. «Eppure neanche una piccola parte del malessere che provavo è svanito in me. Quando i confini di ciò che è giusto o sbagliato si confondono nella normalità, nella vita di tutti i giorni, l’unica soluzione è fidarsi delle proprie sensazioni, del proprio sistema di valori: nessuna influenza sociale può mettere in dubbio il rispetto che si deve avere verso se stessi».
Anche Valeria, 21 anni, è stata molestata sul lavoro, da un uomo più grande di lei. «Non è stato il titolare ma il cognato di questo. Era spostato, aveva più di 40 anni e due figli. Quando veniva in azienda mi faceva battutine e diceva frasi a doppio senso. Poi è passato ai commenti espliciti sul mio viso e sul mio corpo. A un certo punto ha iniziato a chiedermi di uscire». Valeria ha sempre rifiutato gli inviti, chiesto a Marco (nome di fantasia come quello di Valeria) di smetterla, spiegato che la situazione non la faceva sentire bene, a proprio agio. Ma Marco non le ha dato ascolto «L’ultima volta mi ha seguita fino a casa, dietro di me con la sua macchina. Gli ho urlato di smettere, di andare via, di lasciarmi in pace. Gridavo che si stava comportando male». Dopo qualche settimana Valeria è stata licenziata, il suo atteggiamento nei confronti del lavoro da svolgere, a dire del titolare, non era più positivo come agli inizi.
Sono arrivate tante storie simili a quella di Alice e Valeria in questi giorni a #lavoromolesto, lo spazio anonimo di denuncia che abbiamo aperto con Cgil Piemonte e Umbria per invitare le donne a denunciare, a non stare zitte. Proprio con l’obiettivo di dare un contributo alla formazione di una nuova normalità che non identifichi più i comportamenti discriminatori come abitudine. Per fare in modo che nessuna possa pensare che la denuncia sia una vergogna o che il silenzio, la testa china, l’arrendevolezza siano soluzioni.