Blue economy
L’allarme: «Basta sfruttare l’oceano»
Fondamentali per l’equilibrio del pianeta i grandi mari sono sempre più sfruttati come risorsa economica. Ma ora scienziati, economisti e (pochi) politici ci mettono in guardia: bisogna ridurne il declino
L’oceano è il futuro dell’umanità? Ricercatori e aziende non hanno dubbi. Negli ultimi dieci anni lo sfruttamento di mari e oceani ha subìto un’intensa accelerazione a livello globale, sollevando grandi preoccupazioni. È iniziata la corsa a soluzioni per ridurre il declino dei mari, ma la domanda è: oggi un’economia blu sostenibile è possibile?
Le cifre dello sfruttamento dei mari sono impressionanti. Nel 2010 il contributo dell’economia oceanica globale è stato di 1,5 trilioni di dollari, circa il 2,5% del valore aggiunto lordo mondiale, secondo l’Ocse. La regione in cui l’accelerazione economica è maggiore è il sud-est asiatico, trainato dalla Cina, dove il valore aggiunto è passato da 157 miliardi di dollari nel 2010 a più di 175 miliardi di dollari nel 2015 (dati Ocse 2021). Mentre le risorse terrestri si stanno esaurendo, lo sfruttamento sempre più intensivo dell’ambiente marino costituisce un grande pericolo. Due terzi della superficie terrestre sono ricoperti dall’oceano, un’immensa risorsa da sfruttare, ma soprattutto una garanzia di sopravvivenza per l’uomo. Infatti, oltre a costituire l’habitat delle specie animali della nostra catena alimentare, l’oceano svolge un ruolo decisivo nella regolazione del clima: produce più del 50% dell’ossigeno che respiriamo, assorbe circa il 90% del calore generato dall’aumento delle emissioni di gas serra e il 30% delle emissioni di Co2.
Eppure questo ecosistema è sotto attacco. La crescita dei bisogni della popolazione globale in aumento incoraggia abusi delle risorse marine provocando fenomeni devastanti. L’inquinamento, l’aumento delle temperature e dei livelli del mare, il rumore subacqueo, l’acidificazione degli oceani e la perdita della biodiversità sono solo alcuni dei rischi che il mare sta già correndo a causa dell’uomo. Sono recenti il disastro ambientale della petroliera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico o la controversa decisione del governo nipponico di rilasciare acqua radioattiva della centrale nucleare di Fukushima nell’Oceano Pacifico.
L’economia blu comprende industrie fondamentali come: petrolio e gas offshore, attrezzature e costruzioni marine, produzione e lavorazione di frutti di mare, spedizione di container, costruzione e riparazione di navi, turismo di crociera, attività portuali ed energia eolica offshore. Le ultime proiezioni Ocse precedenti la pandemia suggeriscono che tra il 2010 e il 2030, l’economia dell’oceano potrebbe più che raddoppiare, superando i 3mila miliardi di dollari in valore aggiunto globale. Una crescita particolarmente forte è prevista nei settori dell’acquacoltura marina e dell’energia eolica offshore. In questo settore il Regno Unito è un modello per la transizione energetica: nel 2019 per la prima volta la sua produzione di elettricità da fonti rinnovabili ha superato quella generata dagli idrocarburi.
Di fronte a questa situazione, istituzioni e scienziati lanciano l’allarme. Piera Tortora coordina il progetto Ocse “Sustainable Ocean for All” (Un oceano sostenibile per tutti), iniziativa nata per sostenere la transizione verso un’economia blu globale sostenibile, della quale possano beneficiare anche i paesi più poveri. «L’economia blu rappresenta il 2% del Pil dei paesi a reddito alto e l’11% dei paesi a reddito basso-medio. In un contesto di espansione mondiale delle industrie legate all’oceano, la maggiore dipendenza dei paesi in via di sviluppo da queste industrie crea opportunità di crescita economica, ma nello stesso tempo li rende più vulnerabili alle conseguenze delle crescenti pressioni antropogeniche sugli ecosistemi marini». La situazione dell’oceano è senza precedenti : anche se ci limitassimo ad un aumento della temperatura terrestre di 1,5° nei prossimi anni, il 90% dei coralli è destinato a sparire.
Un gruppo di quattordici leader mondiali, tra i quali la primo ministro norvegese, ora sta lavorando con l’Ocse per definire i criteri di sostenibilità dell’oceano. Oggi il termine “sostenibilità” è sovrautilizzato, «bisogna evitare che il settore privato se ne impossessi producendo effetti di “greenwashing”, occupandosi di definire gli standard di sostenibilità al posto dei ricercatori», osserva Jean-Baptiste Jouffray, ecologo ricercatore allo Stockholm Resilience Centre dell’Università di Stoccolma.
Per lo scienziato, la plastica rilasciata negli oceani non è l’unica urgenza, «il cambiamento climatico ha un impatto fortissimo. Il riscaldamento terrestre e l’aumento della temperatura non solo provocano la morte dei coralli, a causa del fenomeno dello sbiancamento, ma anche lo scioglimento dei ghiacci e quindi l’aumento del livello dei mari», determinando erosione costiera e inondazioni. «Il riscaldamento dell’acqua causa anche la migrazione degli stock ittici con conseguenze devastanti per le comunità costiere che dipendono dalla pesca per il loro sostentamento». Per Jouffray «la pesca intensiva e la pesca profonda esercitano grandi pressioni sull’oceano: causano la perdita della biodiversità e impediscono agli stock di pesce di rinnovarsi naturalmente».
Le associazioni e la società civile si stanno muovendo contro il degrado marino di cui si parla ancora poco. In Francia nel 2014, grazie a una grande campagna di mobilizzazione, l’associazione Bloom è riuscita ad ottenere da Intermarché, principale armatore francese, l’abbandono di tutte le attività di pesca in acque profonde al di sotto degli 800 metri.
Più recentemente, il documentario diffuso da Netflix “Seaspiracy” ha scatenato diverse polemiche. Punta il dito contro l’industria della pesca a colpi di cifre e slogan: la tesi è che la pesca commerciale sia il principale motore della distruzione dell’ecosistema marino. Sotto accusa diverse organizzazioni e Ong per la conservazione marina, come l’Earth Island Institute e la sua etichetta Dolphin Safe, o per la riduzione della plastica domestica, il cui impatto reale sarebbe inferiore a quello delle reti per la pesca abbandonate in mare. Nonostante abbia il merito di dare visibilità al problema, secondo Daniel Pauly, biologo marino e professore all’University of British Columbia, il film «fa più male che bene»: distorcendo la narrazione sulla distruzione degli oceani, sostiene l’idea che noi «possiamo salvare la biodiversità degli oceani diventando vegani». Una scelta abbastanza controversa: infatti se per un ragazzo europeo può rappresentare un vanto etico, la vita di milioni di persone, per esempio in India, dipende dalla pesca sia dal punto di vista alimentare che economico.
Alcune istituzioni stanno facendo i primi passi per proteggere gli oceani fornendo norme e obiettivi internazionali, ma ad oggi le azioni realizzate sono insufficienti. Tra i diciassette obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile dell’Onu c’è quello volto a conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile. «Oggi meno del’1% degli aiuti pubblici per lo sviluppo è impiegato per finanziare la transizione verso un’economia degli oceani sostenibile nei paesi in via di sviluppo. Fra il 2013 ed il 2018, la spesa ammontava a circa 3 miliardi di dollari in media all’anno. Queste cifre fanno dell’economia sostenibile degli oceani, assimilabile all’obiettivo 14 dell’Agenda 2030, l’obiettivo di sviluppo sostenibile meno finanziato fra tutti», sottolinea Tortora.
Nel 2012 la Commissione europea ha adottato la “Strategia di crescita blu”. L’economia blu, che oggi dà lavoro a 4,5 milioni di persone e fattura 650 miliardi l’anno in Europa (Blue Economy Report 2020), è parte integrante dello “European Green Deal”.
Ancora una volta, bisognerà vedere come gli Stati europei decideranno di integrare concretamente le proposte delle istituzioni internazionali. In un’ottica di sostegno e influenza internazionali, oggi rivestono un ruolo importante la “Fondazione Institut Prince Albert II de Monaco” e la “Fondazione Leonardo Di Caprio”, che ambisce a proteggere il 30% degli oceani del mondo entro il 2030 attraverso la creazione e l’espansione delle aree marine protette.
Per capire da dove vengono i finanziamenti delle attività marine, i ricercatori dello Stockholm Resilience Center e della Duke University hanno identificato le 100 multinazionali che traggono maggior profitto dalle risorse dell’oceano. La classifica “Ocean 100” è dominata dalle compagnie petrolifere e del gas offshore con un fatturato totale di 830 miliardi di dollari. Nel 2018 il gruppo delle 100 aziende ha generato entrate pari a 1,1 trilioni di dollari. In cima alla lista si trovano Saudi Armaco, Petrobras e la National Iranian Oil Company, mentre l’Eni figura al 18° posto. In questo contesto economico, riorientare la finanza internazionale è un passo fondamentale per la sostenibilità. Non solo richiede la creazione di nuovi strumenti finanziari come i blue bonds, ma anche nuove regolamentazioni finanziarie e dei mercati del credito che spingano all’adozione di standard di sostenibilità. Nel 2018 le Seychelles, arcipelago di 115 isole a nord del Madagascar, sono state il primo Stato ad emettere Blue Bond. La prima obbligazione blu sovrana al mondo alimenta progetti di pesca sostenibile ed è riuscita a raccogliere 15 milioni di dollari di investimenti.
Un caso esemplare di finanza blu sostenibile viene dall’Olanda: la banca Rabobank ha organizzato un prestito “verde e sociale” di 100 milioni di dollari con la società cilena Agrosuper, la principale azienda di salmone del paese e il secondo produttore di salmone al mondo. Il contratto di prestito contiene diverse condizioni ambientali e sociali che AgroSuper deve rispettare, come l’impegno a ridurre l’uso di antibiotici e ad aumentare il numero di eco-certificazioni. Thai Union Group, il più grande produttore mondiale di tonno in scatola, ha ottenuto il suo primo prestito legato alla sostenibilità di 400 milioni di dollari da un gruppo di istituzioni finanziarie. Se l’azienda raggiunge gli obiettivi prefissati, come il rafforzamento della tracciabilità dei suoi frutti di mare, il tasso di interesse viene abbassato.
A livello internazionale le iniziative non mancano, è ora che anche l’Italia faccia la sua parte.