I partiti e i leader si rincorrono tra hashtag e dichiarazioni virali. Ma dopo aver occupato l’agenda mediatica, resta poco o nulla

Tanto si è parlato della crisi dei partiti. Tanto si è detto della logica mediatica che ha trasformato il modo di comunicare la politica. I due fenomeni sono legati. Lo sono così tanto che seguendo oggi il gioco politico, il dibattito politico, scontri e polemiche, si ha l’impressione di rimbalzare da un social all’altro, di saltellare tra hashtag, meme, grafiche.

 

Le parole e gli interventi sembrano fatti per essere sussunti in questi nuovi atomi del discorso pubblico, anzi, meglio, in questi frammenti nel quale il discorso pubblico è esploso, perdendo ogni natura organica e razionale, ogni coerenza e profondità, ogni nesso con una prospettiva generale, da un lato, e con la concretezza del mondo empirico, dall’altro.


Scrivendo del discorso pubblico nella forma che assume su Twitter, il direttore de La7 Andrea Salerno ha acutamente osservato (in un tweet: dalla stessa piattaforma emergono ogni tanto gli strumenti per analizzare gli impazzimenti ai quali essa dà sovente luogo): «Tutta la politica che tweetta sui Maneskin e tutta la politica che tweetta su Falcone. Stesso giorno, stessa intensità. L’essenza dei social network nel linguaggio, nell’imporre agenda delle notizie, senza distinzione di sorta, senza gerarchia, è tutta qui».

 

 


Si scivola tra gli hashtag. Ogni giorno ha la sua proposta. Dall’abolizione del coprifuoco all’utilizzo dell’esercito per bloccare gli sbarchi «come fa la Spagna» di Giorgia Meloni all’eliminazione dell’Imu sugli immobili sfitti e alla flat tax al 15 per cento di Matteo Salvini. Fino alla tassa di successione per i più ricchi per finanziare la distribuzione di un bonus di diecimila euro ai giovani di Enrico Letta. E vedremo quali nuove proposte ci attenderanno nei giorni e settimane a venire.

 

Proposte che funzionano benissimo per essere riassunte nelle «grafiche» delle quali si servono ormai tutti i partiti, quelle cartoline quadrate con immagini e brevissime frasi ad effetto, scritte con caratteri enormi e colori flash, delle quali ormai ogni partito abusa: basta fare un giro sui loro siti o sulle loro pagine Instagram.


Una volta lanciate nel vortice della discussione ottengono plausi o critiche, ma entrano davvero nell’agenda politica? O piuttosto nell’agenda delle chiacchiere? Ma quanto sono state ponderate quelle proposte? Quali analisi di costi e benefici? Di fattibilità? Di impatto? E soprattutto: dove sono state elaborate? Una volta c’erano i partiti, i loro uffici studi, i luoghi interni all’organizzazione partitica deputati al confronto e alla discussione, quindi alla decisione. Una volta. Ora, o il partito si schiera come un sol uomo a sostegno della boutade del leader, nei casi – ad esempio – di Fratelli d’Italia o della piccola falange di Italia Viva, oppure apre il dibattito coram populo, con l’ausilio, ovviamente, delle piattaforme social.


E qui veniamo alla crisi dei partiti accennata all’inizio. I partiti non mettono più in forma esperienze di intelligenza collettiva, non sono luoghi per sviluppare visioni, tradurle in progetti, dare concreta forma politica agli interessi di riferimento, luoghi di discussione reale. Stanno, soprattutto con la voce dei loro leader, nella «nuvola delle parole chiave», nel tentativo di intercettare più consenso possibile.


Con una differenza, però, tra la destra populista (quasi il 90 per cento della destra italiana) e la sinistra. La prima accompagna questo gioco con la forza di un discorso pre-politico moralistico che divide il mondo in buoni e cattivi. La seconda, che pure non disdegna certi manicheismi, oscilla tra visioni anche opposte che spesso la mandano in corto circuito e le impediscono di comunicare agli elettori anche una solo vaga idea di mondo. In entrambi i casi non si costruisce nulla. Ma gli influencer del primo genere sono più a loro agio in un gioco che tutto sommato si addice loro; il Pd per giocarlo a sua volta, si è solo impoverito.