Potere senza popolo. Popolo senza potere. Così le istituzioni italiane sono entrate in crisi. E il governo emergenziale si estende al futuro

La notizia della morte della democrazia italiana è esagerata. Ma, sventuratamente, non lo è troppo. Gli avvenimenti degli ultimi quindici mesi hanno aggravato la situazione, che tuttavia è venuta prendendo forma nel corso almeno di un decennio. Partiamo dal più trito esercizio etimologico: la parola democrazia, com’è noto, è fatta di popolo (demos) e potere (kratos). Bene: esistono ancora, in Italia, il demos e il kratos? E c’è ancora un qualche nesso fra i due?


Di potere, in capo allo Stato nazionale, ne è rimasto pochino. Un po’ è defluito verso il basso nelle regioni, come abbiamo visto nel corso della pandemia. Ma ben di più ne hanno risucchiato verso l’alto l’Europa e i mercati finanziari, come abbiamo potuto constatare con sempre maggiore chiarezza dalla crisi del debito sovrano del 2011 in poi. Chi governa l’Italia qualcosa può fare, certo. Ma i margini di manovra sono molto stretti. Quanto al demos, poche volte nella nostra storia è stato così destrutturato come lo è adesso. Fra l’altro, anche perché non c’è più un kratos per il quale valga la pena strutturarsi. L’elettorato italiano è volatile e disilluso, non si fida delle forze politiche né s’identifica con esse, cambia spesso e volentieri opinione, e in tempi assai rapidi. Le fortune di questo o quel partito o leader montano e crollano con gran facilità: Renzi, il Movimento 5 Stelle, Salvini, Meloni. Così combinato, non è un demos che possa davvero esercitare il kratos.


E infatti lo esercita assai poco. Con la crisi del debito sovrano, il governo Monti e poi il successo elettorale del Movimento 5 Stelle è saltato il bipolarismo, che dal 1994 in poi, per la prima volta nella nostra storia, aveva consentito agli italiani di scegliersi un governo alle urne. Alla volubilità degli elettori ha risposto poi quella dei partiti e gruppi parlamentari: scissioni, ricomposizioni, capriole da uno schieramento all’altro. Lo strumento dello scioglimento anticipato delle Camere, infine, è stato reso in buona sostanza indisponibile dall’ostinata tenacia dei parlamentari, pervicaci nel conservare un seggio che proprio l’universale volatilità ha reso alquanto casuale e molto prezioso: un biglietto della lotteria al quale aggrapparsi con le unghie e con i denti, in spregio a qualsivoglia considerazione di natura politica.


Tutto questo ha reso la formazione degli esecutivi solo molto debolmente dipendente dalle preferenze espresse nelle urne. Ha spinto un partito come quello democratico, sconfitto nel 2013 e 2018, quasi permanentemente al potere. Ha consentito che s’insediassero una serie di Presidenti del Consiglio non solo privi di legittimazione elettorale diretta, ma in molti casi esterni al parlamento o addirittura estranei alla politica. Ha fatto sì che la «fisarmonica» dei poteri del Capo dello Stato raggiungesse l’estensione massima possibile.


In drammatico deficit di demos e kratos, la democrazia italiana si è teatralizzata. Col venir meno della sostanza della politica, insomma, le forme hanno guadagnato spazio e rilievo: più si restringeva il potere dello Stato, più si decomponevano gli schieramenti, più diventava evanescente il rapporto fra elettori ed eletti, e più il conflitto politico si faceva stridulo, chiassoso, ritualistico e polarizzato. Sul palcoscenico si sono presentate allora le maschere che siamo abituati ad associare al populismo, imbonitori dalla gestualità esagerata e dalle parole aspre e provocatorie. Queste maschere hanno per lo meno riportato un po’ di vitalità nello spazio pubblico, costringendo anche gli avversari a scuotersi dal loro torpore. Ma la vitalità si è comunque fermata al livello della rappresentazione, non è arrivata a toccare la realtà. Mentre gli avversari dei populisti, impossibilitati a resuscitare una buona politica che fosse il contrario del populismo, hanno dovuto accettare di recitar la parte dei populisti al contrario.


Dal 2013 a oggi sono stati compiuti tre tentativi di ricostruire il kratos, il demos e il rapporto fra i due. Il Movimento 5 Stelle si è battuto contro le pressioni disciplinari europee e globali nel nome dell’autogoverno delle piccole comunità. Ritenendone la destrutturazione una condizione ormai definitiva, poi, ha pensato di poter mettere il demos in contatto diretto con le decisioni pubbliche grazie a internet, senza intermediazioni e senza alcuna ricomposizione politica preventiva. Matteo Renzi ha tentato di mettere una provvisoria ricostruzione teatrale del demos al servizio di una riforma istituzionale che a sua volta rendesse quella ricostruzione permanente, e le consentisse così di recuperare almeno un po’ di kratos. Pure Matteo Salvini ha provvisoriamente e teatralmente ricostruito un pezzo di demos. Lo ha fatto promettendo il ripristino del kratos, nella speranza di raccogliere, grazie a quella promessa, sufficiente forza politica da poterla mantenere. Potremmo discettare a lungo della desiderabilità e del realismo di queste ipotesi. Ma sarebbe accademia: già prima della pandemia erano fallite tutte e tre.


Ultimo venne il Covid. Nell’immediato, la pandemia ha molto attenuato il tasso di eccitazione politica degli italiani. Sul più lungo periodo resta però difficile valutare quali ne saranno gli effetti. L’impressione è che non abbia affatto contribuito a ricomporre il demos, ma che vi abbia semmai introdotto ulteriori tensioni centrifughe. Certo è che, col Covid, il kratos è ulteriormente appassito. Il debito pubblico italiano è venuto montando, e con esso è vieppiù cresciuta la dipendenza del Paese dalle scelte della Banca Centrale Europea. Mentre il Next Generation Eu ha costruito una gabbia di condizionalità continentale a tal punto cogente da rendere obsoleto il dibattito sul Meccanismo Europeo di Stabilità, che infatti è del tutto scomparso dalle cronache.


Facendo forza sull’emergenza, nel momento in cui è entrato in crisi il secondo governo di Giuseppe Conte il Capo dello Stato ha scelto d’incaricare Mario Draghi piuttosto che sciogliere le Camere. A cento giorni o poco più dal suo insediamento, tuttavia, bisogna riconoscere che quello dell’ex presidente della Bce già non è più un governo emergenziale. Le emergenze, ossia la presentazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e la campagna vaccinale, sono state affrontate e risolte. Si dice che occorreranno ancora molti mesi per realizzare il Piano e soprattutto introdurre le tante, fondamentali riforme che vi sono previste, e che la stabilità del governo Draghi è indispensabile a questo scopo e come garanzia di fronte a Bruxelles. E si dice il vero. Solo, l’emergenza a questo punto non c’entra più molto. C’entra l’estensione della fisarmonica dei poteri del Quirinale resa necessaria da un vincolo europeo che con la pandemia e il Pnrr si è fatto ancora più stringente che nel passato. E c’entra, naturalmente, l’accettazione di questa logica da parte di un’ampia maggioranza parlamentare, per ragioni in parte di natura nobilmente politica e in parte relative invece alla legittima ma meno nobile ansia di garantirsi la sopravvivenza politica individuale.


La politica italiana, così, è finita commissariata sotto Draghi ancor più di quanto non lo sia stata dieci anni fa con Mario Monti. La non trascurabile differenza è che allora il commissariamento serviva a recuperare risorse, adesso serve invece a gestirle. Del resto, proviamo a immaginare la prossima campagna elettorale nazionale, sia essa nel 2022 o 2023: con i soldi del Pnrr impegnati fino al 2026, le riforme di struttura già impostate dal governo Draghi e un debito pubblico che esclude la possibilità di qualsiasi altra operazione, su che cosa si divideranno i partiti? Quali alternative reali potranno essere sottoposte alla scelta dei cittadini?


Il divorzio fra la realtà del governo e la rappresentazione della politica potrebbe diventare, negli anni a venire, uno dei principali fattori di rischio, se non il principale, per il nostro Paese. Per un verso, col debito pubblico che ha, e soprattutto se, come probabile, le regole europee verranno ripristinate, l’Italia sarà sottoposta a stretti vincoli di compatibilità continentale e internazionale per un periodo di tempo ben più lungo di quel che potrà durare la pax draghiana. Per un altro non è pensabile che nel nome di quei vincoli la democrazia possa essere messa sotto tutela a tempo indefinito. Anche perché, come insegna la vicenda del governo Monti, gli elettori tendono a ribellarsi ai tutori. E non è detto che, nel tempo, i denari del Pnrr bastino a sopirne gli istinti ribelli.


Diventa allora più che mai urgente che la pax draghiana sia utilizzata non soltanto per le riforme del Pnrr, ma anche per ricostruire un nesso stabile e credibile fra politica e governo, fra rappresentazione e realtà. Si discute molto, da ultimo, di ristrutturazione dei partiti. E i partiti in effetti si stanno muovendo. Toccherà a loro, poi, il compito cruciale di scegliere il prossimo Capo dello Stato, la figura che dovrà sovraintendere al sistema per i prossimi sette anni, i quali, per quel che s’è detto finora, si preannunciano quanto mai rischiosi e delicati. È lecito dubitare però che i partiti da soli abbiano la forza necessaria a rimettere in una forma accettabile un sistema politico così deteriorato. Torniamo così all’annosa questione delle riforme istituzionali. Il governo Draghi ha il compito di approfittare della sospensione della politica per far ripartire il Paese ristrutturandone l’apparato pubblico. Ma se, quando infine si ripresenterà, la politica non dovesse trovare una cabina di controllo in ordine, i risultati di tutto questo sforzo potrebbero andar perduti.