Reportage
Il confine tra Bielorussia e Polonia: l’Europa negata dietro un filo spinato
Al gelo centinaia di curdi iracheni, tra cui ragazze yazide. Sopravvissuti al genocidio dell’Isis. Rispediti indietro, contro le convenzioni internazionali (foto di Alessio Mamo)
Lungo i corridoi di un enorme magazzino, tra le coperte e i materassi disposti a terra uno dietro l’altro, che si elevano anche in verticale, i bambini sembra giochino a nascondino, sbucando ora da dietro una coperta-tenda, ora scendendo da una scala improvvisata verso il pavimento tanto grigio quanto freddo. Il loro posto per riunirsi, giocare e divertirsi sarebbe invece altrove, pochi metri più in là, sulla neve all’esterno del magazzino. Lo stesso spazio dove i loro genitori si mettono in fila per un pasto e dove a giorni alterni si avviano per le docce. Da dietro quei ripari-nascondigli, in realtà i bimbi stanno solo cercando i loro letti, temporaneo rifugio di un viaggio cominciato lontano e non ancora finito. Da qui difficile che, pur correndo a più non posso verso la meta, possano fare un “tana liberi tutti”. Di libero, a Bruzgi, in Bielorussia, d’inverno, non c’è proprio nessuno.
Le scaffalature industriali di un ex centro doganale a poche centinaia di metri dal confine col filo spinato che li separa dalla Polonia sono state trasformate in un dormitorio per i richiedenti asilo che sarebbero voluti arrivare dall’Iraq e dalla Siria in Europa. Il dormitorio, però, con i numeri che – 56, 57, 58…- rimangono appesi ad ogni scaffalatura a inizio corridoio, assomiglia allo spazio ritiro merci Ikea o smistamento pacchi Amazon. Se non fosse che al posto delle merci ci sono le persone che l’Europa si ostina a non considerare tali. A Bruzgi, la maggior parte sono cittadini curdi iracheni, un migliaio, e tra loro, dunque, ragazze yazide, sopravvissute al genocidio messo in atto dal gruppo terroristico Isis a partire dall’estate del 2014 contro il loro popolo. Dopo tutti questi anni, anche loro fuggite o sopravvissute e ritornate dalle proprie famiglie, continuano a vivere in campi di sfollati nel nord dell’Iraq, spesso campi informali in condizioni di povertà estrema, dove una di quelle alluvioni sempre più frequenti potrebbe mettere di nuovo a repentaglio la loro vita. O a rischio attacchi con i droni della Turchia, che nell’ultimo anno si sono susseguiti in Iraq. Di nuovo. Dopo l’Isis e le alluvioni e ancora droni, di nuovo, al confine con l’Europa, giovani ragazze e giovani famiglie si ritrovano a tremare per il freddo: per la loro vita.
A raccontarlo è Bahia Barakat, una ragazza di quindici anni che ha già la voce di un’adulta. Quando parla il suo tono è serio, irremovibile, come di un destino che ogni volta lei deve trovare la forza di cambiare. Sette anni fa è stata costretta a lasciare la sua terra di origine, il Sinjar, in Iraq, per rimanere sfollata per sette anni nel Kurdistan iracheno. Con lei i genitori e i fratelli, allora dei bambini, attorno a loro migliaia di persone che sparivano o fuggivano. «Anche negli ultimi mesi, dopo ben sette anni, sentiamo il pericolo dell’Isis imminente. Ci sono stati minacce e intrusioni in villaggi vicini anche nel Kurdistan iracheno. Tra il pericolo e l’assoluta assenza di un cambiamento, con la possibilità di migliorare la nostra situazione, abbiamo scelto di partire, correre un altro tipo di pericolo…». Dal nord dell’Iraq, Bahia e la sua famiglia hanno preso un bus da Zakho, l’ultima città dell’Iraq a confine con Siria e Turchia. Da Zakho a Istanbul dove avrebbero poi preso un volo diretto per Minsk. Era il 29 ottobre: ancora poco e quelle tratte sarebbero state annullate, vietate per siriani e iracheni, potenziali richiedenti asilo in volo. Bahia invece è riuscita ad arrivare a Minsk e, come migliaia di altri siriani e iracheni, è stata portata in uno stesso hotel, che loro chiamano Hotel Blaneta, con una “b” che dovrebbe corrispondere alla “p” di Planeta. Poco importa: dall’hotel in poi la strada è già segnata. Sono numerosissimi i tassisti che li aspettavano all’uscita dell’hotel per portarli al confine con la Polonia. E per facilitare il passaggio, ai soldati bielorussi bastava tagliare un filo spinato e spingerli in Europa. A Bahia e famiglia invece serviva anche una buona dose di fortuna che li avrebbe fatti arrivare a chiedere asilo. E che non hanno avuto. «Dal 16 novembre siamo qua in questo dormitorio. La Polonia ci ha respinto. Possiamo solo sperare che facciano qualcosa per noi»: per non rimanere sospesi, per non essere riportate indietro. Sono centinaia infatti le famiglie curde irachene, e tra loro altre famiglie yazide come quella di Bahia, che con un volo diretto da Minsk sono atterrate a Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno. Un viaggio fallito, dove a fallire è solo il rispetto delle convenzioni internazionali per cui il respingimento dei richiedenti asilo è illegale. Bahia può solo chiedersi come mai tante yazide siano arrivate negli anni passati in Germania, accolte come sopravvissute, e oggi lei non può più mettere piede nella stessa Europa.
Nel frattempo nel dormitorio-magazzino, non c’è nessuna assistenza medica. A circondare le persone, o forse meglio a sorvegliarle, ci sono solo soldati dell’esercito bielorusso che in Europa sono conosciuti per altri orrori nella dittatura del presidente Alexander Lukashenko. Era il 9 agosto del 2020 quando alle elezioni presidenziali è stato riconfermato, al settimo mandato dal 1994. Trent’anni fa, al crollo dell’Unione Sovietica, la Bielorussia è diventata una repubblica indipendente e da allora ha conosciuto un unico presidente, Lukashenko. Lo stesso che, in barba all’Europa e forte dell’appoggio non troppo timido del presidente russo Putin, ha diretto da dietro le quinte i viaggi dei rifugiati siriani e iracheni: il passaggio nel cuore del suolo europeo è stato venduto come un pacchetto che comprendeva viaggio, visto turistico e hotel. È lo stesso presidente che all’indomani delle elezioni del 2020 ha represso con violenza e torture le manifestazioni di centinaia di migliaia di bielorussi che osano sperare, anche loro, in un cambiamento. Oggi molti degli attivisti e giornalisti che hanno osato sfidare il dittatore sono dietro le sbarre o fuggiti all’estero. La giornalista e scrittrice Svletana Aleksievič, premio Nobel per la letteratura 2015, fortemente critica nei confronti del regime dittatoriale bielorusso, aveva raccontato l’Unione Sovietica e la sua fine, e oggi nella Bielorussia vede il nuovo gulag, un potere cieco che vuole solo mantenersi, senza idee, fine a sé stesso. E mentre le prime pagine di tutti i giornali in Europa parlavano del confine polacco-bielorusso, il primo novembre due organizzazioni per i diritti umani, l’Organizzazione mondiale contro la tortura (Omct) con sede a Ginevra e il Centro europeo per i diritti costituzionali e umani (Ecchr) con sede a Berlino, hanno presentato una denuncia in Germania contro sei membri del servizio di sicurezza bielorusso per crimini contro l’umanità. Hanno accusato le autorità di aver effettuato detenzioni di massa, torture, sparizioni, violenze sessuali e persecuzioni politiche. I due gruppi hanno scelto di intentare la loro causa in Germania grazie al suo principio di giurisdizione universale, secondo cui i crimini contro l’umanità che sono stati commessi anche al di fuori del suolo tedesco possono essere perseguiti nelle sue corti nazionali.
Per Yasmin, suo marito e sua madre Selma (nomi di fantasia per proteggerne l’identità) il conflitto in Siria è stato minacce e fuga continua. Selma è un’infermiera di Idlib che ha lavorato in un ospedale governativo. Per l’opposizione che è al potere nella sua provincia, il gruppo Jabhat al-Nusra, per anni ramo di al-Qaeda in Siria, il fatto che lei abbia curato i soldati di Assad non andava bene. Da lì, la prima fuga verso la città di Lattakia, sotto il controllo del regime.
Come se non bastasse, anche a Lattakia, solo perché proveniva da Idlib la famiglia di Selma era considerata parte dell’opposizione e quindi non ben accetta. Ad Idlib, nel frattempo, i suoi fratelli venivano torturati in risposta alla loro fuga. Selma, con un trapianto di reni e altre gravi patologie, oggi non si può muovere da sotto quella tenda coperta che l’inchioda al magazzino di Buzgi in Bielorussia. «Vivo con il terrore che mia madre possa morire e non rivedere mai più i suoi figli, ovvero i miei fratelli in Germania che pure hanno cercato di aiutarci. Ma noi non possiamo andare neanche in un’ambasciata a Minsk, se usciamo dal campo non possiamo più farvi ritorno», racconta in lacrime Yasmin, che insieme alla mamma e al marito è una delle poche persone che indossa perennemente la mascherina per la paura che hanno delle condizioni di salute di Selma. «Il nostro visto in Bielorussia è scaduto, non possiamo avanzare né arretrare. Sono distrutta psicologicamente e abbiamo bisogno di supporto. Mia madre ha bisogno di medicine, insieme abbiamo bisogno di stare in un luogo sicuro».
Il termometro resta fisso sotto lo zero. Un lungo inverno deve ancora passare per Yasmin, Selma e per altre migliaia di persone. Forse ciò che viene dato loro, il tè e biscotti, i noodles a pranzo, e poco altro la sera, non basterà a sostenerli. Finora li ha sostenuti solo il loro coraggio di reclamare il diritto d’asilo, il diritto a una vita migliore.