L’inchiesta
Caso Becciu, il tribunale dà ragione all’Espresso: il cardinale condannato a pagare le spese processuali
I giudici di Sassari hanno stabilito che le inchieste sugli scandali finanziari riconducibili al porporato erano fondate. E scritte in modo duro ma non offensivo. Una vittoria per il nostro giornale ma soprattutto per la libertà di espressione
Condannato alle spese: finisce così, almeno in primo grado, la causa intentata dal Cardinale Giovanni Angelo Becciu contro L’Espresso. Colpevole, a suo dire, di averlo gravemente diffamato con gli articoli scritti da Massimiliano Coccia quando era direttore Marco Damilano e ripresi, nella newsletter settimanale, da chi scrive. Il cardinale, che era stato sospeso da Papa Francesco nei giorni che andavano tra la stampa del giornale con la copertina dedicata all’inchiesta giudiziaria in corso (il titolo era “Fuori i mercanti dal tempio”) e la sua uscita in edicola, aveva chiesto un risarcimento di 10 milioni di euro. Una cifra che l’avvocato del prelato, Natale Callipari, aveva giustificato con il colpo inferto alle possibilità di Becciu di diventare Papa dopo Francesco. Arrivando a quantificare nel modo più meschino, come scrisse Damilano, il valore materiale della carica di Pontefice.
Una pretesa del tutto infondata, ha sentenziato, accogliendo le tesi difensive delle avvocate Virginia Ripa di Meana ed Elisa Carucci, la giudice Marta Guadalupi del Tribunale di Sassari, a cui Becciu si era rivolto. La magistrata esamina gli articoli pubblicati dal giornale, li confronta con i risultati ottenuti finora dalle inchieste giudiziarie in corso e stabilisce che Coccia ha riferito notizie confermate dalle indagini e che il tono, per quanto «duro, aspro e polemico» non era mai «contumelioso».
Non sta in piedi, inoltre, l’accusa che i giornalisti de L’Espresso sapessero delle future dimissioni del cardinale già due giorni prima che lui stesso le avanzasse. Una teoria presentata dai legali di Becciu (e ripresa nella veemente campagna di stampa a favore del cardinale e contro Papa Francesco) nell’ipotesi assurda che un articolo, al momento in cui se ne inizia la lavorazione, sia già perfettamente identico, per contenuti e titolo, alla versione che sarà pubblicata dopo ore di lavoro, revisioni e aggiornamenti. «Un accadimento francamente inverosimile», lo definisce la magistrata.
Un lungo passo della sentenza è dedicato alla necessità di bilanciamento tra «il diritto all’onore, al decoro e alla reputazione» e «il diritto di manifestazione del pensiero». Quest’ultimo «non riguarda solo le informazioni e opinioni neutre o inoffensive, ma anche quelle che possano colpire negativamente l’immagine di soggetti terzi coinvolti nella notizia» ed è essenziale per garantire «il pluralismo, la tolleranza e lo spirito di apertura senza i quali non si ha una società democratica». E ancora: «Pretendere la censura a priori del giornalismo esplicato mediante la denuncia di sospetti di illeciti», si legge nelle 27 pagine della sentenza, «significherebbe degradare, fino ad annullarlo, il concetto stesso di giornalismo di inchiesta e di denuncia».
Per questo il cardinale è condannato a pagare 40 mila euro di spese processuali, in favore del gruppo editoriale Gedi, che era proprietario de L’Espresso all’epoca dei fatti, e dei tre giornalisti citati in giudizio: Coccia, Codacci-Pisanelli e Damilano. Una nuova sentenza contro Becciu dopo quella con cui il Tribunale di Como ha respinto la sua richiesta di danni ad Alberto Perlasca, testimone chiave del processo sulla gestione dei fondi vaticani che intanto va avanti: l’ultima udienza preliminare è fissata per il 25 gennaio.