Si tratta con gruppi jihadisti per Rocco Langone, la moglie Maria Donata Caivano e il figlio Giovanni, scomparsi a maggio. Forse è stata ceduta alle bande che imperversano nel Sahel, spinte a Nord da governativi e mercenari russi della Wagner

Resta il silenzio a coprire le voci di tre italiani rapiti in Mali lo scorso maggio: Rocco Langone, la moglie Maria Donata Caivano e il figlio Giovanni, scomparsi verso le otto di sera del 19 maggio 2022 dalla loro casa a Sincina, un villaggio rurale a undici chilometri da Koutiala, nella regione di Sikasso, nel sudest del Paese, vicino al confine con il Burkina Faso. A opera di «uomini armati», scrivono le agenzie di stampa subito dopo l’accaduto. Probabilmente, banditi locali che hanno rivenduto gli ostaggi - assieme ai tre italiani è stato rapito anche un cittadino del Togo - ai gruppi jihadisti che sono presenti nel Sahel, la regione nordafricana che separa il Sahara dalla savana sudanese, conosciuta per la sua instabilità, conseguenza anche della precarietà politica che caratterizza da anni il Mali.

 

«A seguito del rafforzamento degli accordi di cooperazione tra il governo maliano della giunta militare e il Cremlino, l’Unione europea e la Francia hanno sospeso le missioni attive nel Paese mentre la Russia ha potenziato l’invio di armi, equipaggiamenti e personale militare con non meglio precisati compiti di training e di formazione ma anche di presenza sul territorio. Sebbene la notizia non sia stata confermata dal governo di Bamako, si crede che siano circa un migliaio i mercenari del gruppo Wagner impegnati, assieme ai soldati maliani, in violente operazioni militari che starebbero spingendo i gruppi jihadisti o a ripiegare verso il Nord, area di cui già hanno il controllo, o a cercare nuovi territori e canali per finanziarsi». Ecco perché, come spiega Andrea de Georgio, Associate research fellow all’Istituto per gli studi di Politica internazionale, che ha vissuto in Mali per 6 anni, il rapimento dei tre italiani e del togolese, anche se è avvenuto nel Sud-Est del Paese, zona in cui le forze jihadiste non sono solite agire, per modus operandi può essere collegato a molti altri sequestri che ci sono stati negli ultimi anni.

 

Come quello della suora colombiana Gloria Cecilia Narváez, rapita nella zona di Koutiala e liberata dopo quattro anni e otto mesi di prigionia, ad ottobre 2021. «O come è successo a padre Maccalli, prelevato in Niger e poi portato nel Nord del Mali. Rilasciato insieme a Nicola Chiacchio, alla cooperante francese Sophie Petronin e al politico maliano Soumaila Cisse, a ottobre 2020. Con molta probabilità, anche i cittadini rapiti a maggio sono stati trasportati nel settentrione maliano, sotto il controllo del Gruppo di sostegno dell’islam e dei musulmani, una delle due più importanti sigle jihadiste che operano nel Sahel, di cui fa parte anche la Katiba Macina, branca qaedista a cui, da quanto sappiamo, gli uomini armati hanno consegnato gli ostaggi dopo il rapimento», sostiene de Georgio, sulla base degli studi condotti fino a oggi e delle fonti che ha sul territorio.

 

«Il Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani (Gism) è, infatti, noto per le sue abilità nel trattare con i governi occidentali per la liberazione degli ostaggi, grazie a canali per i negoziati che sono aperti da anni. Si tratta di un vero e proprio business per i gruppi jihadisti che si finanziano con gli euro che ricevono dai governi europei: un francese vale più di un italiano che vale più di uno spagnolo», spiega de Georgio.

 

«Anche se, ultimamente, al denaro si è aggiunta la richiesta di scambio di prigionieri, come è successo per il rilascio di Padre Maccalli». Che al telefono ha una voce flebile e cauta. Non ha molta voglia di dilungarsi nel racconto che ha già fatto tante volte, di ricordare le giornate interminabili che ha trascorso nelle mani dei jihadisti, dal 17 settembre del 2017 all’8 ottobre 2020. Di far riemergere la sofferenza «che è lunga, dura e difficile da affrontare. Per questo dobbiamo continuare a pregare. Perché ci sono altri ostaggi che affrontano la medesima sofferenza», aveva dichiarato il giorno dopo la liberazione. E lo stesso dice oggi dalla Società delle missioni, l’istituto di Genova dove risiede: «Sono vicino alle famiglie e alle persone rapite per quello che stanno vivendo».

 

Così, dopo qualche secondo di attesa in cui da un capo all’altro del telefono passa solo il ronzio prodotto dalla linea fissa, Padre Maccalli si congeda. Con lo stesso silenzio imperfetto che contraddistingue la chiamata quando nessuno parla, Annamaria Langone, la sorella di Rocco, che da mesi non dice più nulla a proposito del rapimento, ha preferito non rispondere a L’Espresso. Abita a Ruoti, il piccolo comune vicino Potenza in cui Langone ha vissuto prima di trasferirsi con la moglie a Triuggio, in provincia di Monza e Brianza, dove marito e moglie sono rimasti fino al 2019 quando hanno raggiunto il figlio a Sincina, in Mali. Lì erano conosciuti come la “famiglia Coulibaly” e secondo alcune testimonianze stavano progettando di avviare una sala del Regno, luogo di culto dei testimoni di Geova.

 

«Non ero a conoscenza del loro credo religioso. Erano una famiglia riservata che, anche geograficamente, risiedeva in una zona ai margini del Comune, vicino al fiume Lambro, per cui sono pochi gli abitanti di Triuggio che li conoscevano bene», spiega il sindaco Pietro Cicardi. «Io ci ho avuto a che fare più volte in quanto primo cittadino ma da mesi non ho nessun tipo di notizia, né per via del fratello di Giovanni che mi capita di incontrare visto che abita in un paese poco distante da qui, né per le vie ufficiali». Non ha notizie aggiornate neanche Felice Faraone, assessore alla Cultura del comune di Ruoti che è rimasto in contatto con i parenti degli italiani sequestrati.

 

Dopo quasi 7 mesi dal rapimento, su Rocco Langone, Maria Donata Caivano, il figlio Giovanni e il cittadino togolese che era con loro, è sceso un profondo silenzio. Come solitamente succede durante i sequestri per mano di gruppi terroristici, il ministero degli Esteri chiede il massimo riserbo: «In accordo con la famiglia. Per non complicare la vicenda che stiamo seguendo con la massima attenzione. Per questo non possiamo dare ulteriori informazioni da diffondere», fanno sapere dalla Farnesina. Perché per accrescere la situazione di pericolo in cui si trovano gli ostaggi basta poco. Ma resta lo sconforto in chi si interroga sulla sorte dei prigionieri e l’aura di mistero sulle trattative tra i governi dei Paesi occidentali e le forze jihadiste. Che sopravvivono anche grazie alle ingenti somme di denaro pagate dagli Stati come riscatto.