Il confine è una porta aperta verso l’Unione Europea e chi può spendere passa senza problemi. Mentre chi non ha soldi prova a scavalcare il muro costruito da Orbán. Ma ora Bruxelles impone la linea dura

Quando Tibor Szabó ha notato un kalashnikov nascosto nel suo campo di grano, non si è spaventato: ha fatto una fotografia, che mostra sullo schermo del suo cellulare, e non ha toccato l’arma, convinto che presto sarebbe scomparsa. «Non sono il primo contadino della zona a cui è capitata una cosa del genere, né sarò l’ultimo», spiega appoggiato allo steccato della sua casa di campagna mentre un gruppo di galline razzola attorno ai suoi piedi. Lui e la moglie, racconta, stanno cercando di abituarsi ai colpi di arma da fuoco che di tanto in tanto riecheggiano nella notte e ai passi furtivi nei campi quando cala il buio.

 

A pochi chilometri dal suo terreno, nella regione serba della Voivodina, dove un decimo degli abitanti parla ungherese, si stende la doppia recinzione, alta quattro metri e costellata di filo spinato e telecamere, fatta costruire da Viktor Orbán nel 2017 per impedire l’ingresso ai migranti diretti dalla Serbia in Ungheria.

 

Nell’estate scorsa, non lontano dalla casa di Tibor, una sparatoria tra bande di trafficanti ha provocato una vittima: «Sono nervosi, quest’anno il carico di lavoro è aumentato», commenta il contadino, fissando un punto indistinto in direzione del confine. Dalla casa la recinzione non si vede, nascosta dalla boscaglia, ma in questa zona di frontiera tutti si sono abituati alla sua presenza. Secondo i dati di Frontex, il numero dei migranti in cammino per entrare nell’Unione Europea sulla cosiddetta rotta dei Balcani occidentali è aumentato del 170 per cento quest’anno, e nei primi nove mesi sono stati registrati 106mila ingressi irregolari. Un aumento favorito, a detta di Bruxelles, dal governo di Belgrado: la Serbia, infatti, non chiede il visto ai viaggiatori provenienti da Stati che non riconoscono l’indipendenza del Kosovo, tra cui India, Turchia e Marocco.

 

Per i cittadini di questi Paesi che desiderano vivere in Europa lo Stato balcanico rappresenta la prima tappa, raggiungibile con un biglietto aereo, di un viaggio che li conduce fino alle porte dell’Ungheria, dove tentano di entrare clandestinamente. Si tratta di «una porta di accesso dal retro che va chiusa», ha affermato il vicepresidente della Commissione europea Margaritis Schinas. «I nostri amici serbi pensavano forse che non avremmo notato come gli indiani oggi figurano tra le prime dieci nazionalità di richiedenti asilo?», ha commentato il politico greco, mentre la commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, ha annunciato «un piano d’azione» per la rotta balcanica pronto prima del vertice “Ue-Balcani occidentali” del 6 dicembre a Tirana.

 

Nel luglio scorso, l’Austria ha registrato il più alto numero di domande di protezione internazionale dalla crisi migratoria del 2015; i primi, per nazionalità, sono stati proprio i cittadini indiani, ma nessuno di loro, si è affrettata a chiarire Vienna, ha ottenuto l’asilo. Un mese dopo, ad agosto, l’Ue ha registrato un inedito, anche se contenuto, picco di domande da parte di migranti turchi e marocchini per un totale di 6mila richieste. Così, su pressione di Bruxelles, la Serbia, candidata ufficialmente a entrare nell’Unione, ha promesso di uniformare la propria politica di ingresso a quella degli Stati europei e ha, per ora, imposto l’obbligo di visto ai viaggiatori provenienti dalla Tunisia e dal Burundi, Stato africano tra i più poveri al mondo.

 

Seduto in mezzo a un campo di patate nei pressi del confine con l’Ungheria, Jaskaran prova a scaldarsi con i raggi del sole autunnale; accanto a lui il suo compagno di viaggio, con il capo avvolto in un turbante nero, taglia una cipolla da mangiare con un pezzo di pane. Entrambi raccontano di essere emigrati dalla regione indiana del Punjab, dopo avere scoperto l’esistenza della rotta balcanica tramite Internet: «Lavoravamo nei campi, ma ci siamo indebitati a causa delle frequenti alluvioni e vogliamo trovare lavoro in Svizzera». Ogni tanto tossiscono, perché il mulino abbandonato in cui hanno passato la notte è molto umido, raccontano: dopo essere arrivati in aereo a Belgrado, hanno depositato 5mila euro in un fast food vicino alla stazione ferroviaria, che funge da base per i trafficanti, e ora sono in attesa delle indicazioni per sapere quando varcare il confine a nord della città di Subotica.

 

Con i suoi edifici in stile Art Nouveau e i colori accesi delle facciate dei palazzi, la città di Subotica racconta un’altra storia di frontiera. L’elegante sede del municipio, il teatro e la sinagoga testimoniano l’antica ricchezza di un crocevia commerciale conteso tra gli Ottomani e gli Asburgo. Oggi sui giornali stampati in lingua magiara che si leggono nelle piazze fanno spesso capolino titoli contro i profughi, accusati di avere reso la città una terra di conquista dei trafficanti.

 

Snodo di contrabbando di armi durante le guerre jugoslave e di cannabis ed eroina ancora oggi, la regione intorno a Subotica ha infatti scoperto un nuovo business: il traffico di migranti. Secondo il centro di ricerca svizzero Global Initiative questo giro di affari al confine tra la Serbia e Ungheria frutterebbe ai trafficanti più di 8 milioni all’anno. Radoš Durović, della ong serba Asylum protection center, si è abituato a leggere delle sparatorie fuori dalla città tra gruppi rivali: «I criminali locali arruolano i migranti che si sono indebitati durante il viaggio per utilizzarli come traduttori. Ma anche i cittadini del posto, spesso in difficoltà economica, si offrono come autisti o mettono a disposizione i loro appartamenti».

 

Fuori dal centro di accoglienza nei pressi della città di Sombor, a pochi chilometri dal confine con la Croazia e l’Ungheria, una lunga fila di taxi staziona sotto agli alberi. «Accompagniamo i migranti in città per acquistare il cibo, oppure li avviciniamo al confine: ma cosa fanno lì bisogna chiederlo ai trafficanti, senza di loro qui non puoi fare nulla», commenta un tassista. Progettato per ospitare un centinaio di persone, il centro di accoglienza di Sombor ne accoglie oggi circa 800. Tutti, al suo interno, conoscono la logica del profitto dei trafficanti che regola le modalità di attraversamento. La percentuale di successo è molto alta, se ci si può permettere di pagare 10mila euro per corrompere i funzionari dei varchi ufficiali, mentre i più poveri versano 300 euro per noleggiare una scala con cui provare a scavalcare, di notte, il muro di filo spinato. Oltre la barriera, però, l’ostacolo più grande rimane quello della polizia ungherese.

 

«In ogni accampamento che visitiamo, tra i boschi o negli edifici abbandonati, ci sono persone con lesioni e arti spezzati», racconta Vuk Vuckovic, della ong serba klikActiv, impegnata a offrire sostegno umanitario ai migranti lungo il confine. «L’Unione Europea ha mostrato interesse solo per la questione dei visti che hanno un’influenza minima: il 70 per cento dei migranti in transito oggi in Serbia è rappresentato da afghani e siriani, e tutti, a prescindere dalla nazionalità, subiscono soprusi terrificanti per mano della polizia».

 

Secondo klikActiv, sono centinaia le persone respinte ogni giorno in Serbia dopo avere attraversato la frontiera con l’Ungheria. In un rapporto pubblicato lo scorso agosto, Medici senza frontiere ha elencato gli abusi documentati in questa terra di confine: percosse con cinture e manganelli, calci, pugni, uso di spray al peperoncino e gas lacrimogeni, e poi umiliazioni come quella di «funzionari di frontiera che durante i rastrellamenti hanno urinato addosso ai migranti svestiti».

 

A fine ottobre, il governo ungherese ha annunciato di volere aumentare l’altezza del muro, che si estende anche al confine con la Croazia, e ha rimproverato l’Unione di non avere rimborsato la spesa di oltre 800 milioni di euro necessaria a costruirlo. «Bruxelles è convinta che i respingimenti illegali e le barriere fungano da deterrente: ma finora hanno solo favorito gli affari dei trafficanti», sostiene Durović. «Molti rifugiati stanno abbandonano la Turchia, dove hanno vissuto per anni, a causa della crisi economica e dell’ostilità della popolazione, e con l’avvicinarsi delle elezioni nel Paese la situazione peggiorerà».

 

La risposta dell’Unione europea non sembra destinata a farsi attendere: «Frontex deve essere impiegata lungo tutta la rotta balcanica», ha chiarito il vicecommissario Schinas, e Belgrado ha accettato di ospitare le truppe di pattugliamento dell’agenzia europea al confine meridionale con la Macedonia del nord. Il ministro dell’Interno serbo, Aleksandar Vulin, ha chiarito la posizione del governo durante una visita istituzionale in Grecia, quando ha alluso al conflitto secolare con l’Impero ottomano: «Non è la prima volta che la Serbia protegge l’Europa da un’invasione: ogni migrante fermato al confine serbo è un migrante in meno a Vienna o a Berlino». Intanto, nel campo al confine con l’Ungheria, assieme a migliaia di altre persone, Jaskaran attende le indicazioni dei trafficanti. E si augura di non essere lui, quel migrante.