Nei loro lavori, stimolati dagli psicologi per elaborare i traumi, la memoria dell’orrore e del caos. Ma anche la voglia di normalità. Molti non reagiscono, si chiudono nel silenzio. L’appello degli operatori: “Bisogna trasferire in fretta e al sicuro i casi più gravi”

Quando i primi sfollati in fuga dai bombardamenti russi arrivarono nella città di Leopoli, a poche miglia dal confine con la Polonia, le autorità militari ucraine intuirono immediatamente la necessità di allestire all’interno della stazione dei treni una clinica per il supporto psicologico dei rifugiati. In quei giorni, migliaia di donne, confuse e in preda al panico, scendevano dai vagoni provenienti da Kharkiv e Kiev, vagando senza meta tra i binari, disorientate e smarrite, incerte sulla prossima tappa del loro viaggio e della loro vita. Ma a preoccupare di più le autorità non era tanto il pianto disperato di queste madri, quanto il silenzio inquietante dei loro figli, molti dei quali avevano smesso di parlare.

«La maggioranza dei bambini ucraini che osservammo mostrava chiari sintomi di sindrome catatonica, isteria, disturbi dell’adattamento, sgomento, ansia e attacchi di panico», dice Orest Suvalo, psichiatra e coordinatore del centro di supporto psicologico della stazione di Leopoli, trasformato dall’inizio del conflitto in un gigantesco centro di accoglienza per gli sfollati interni. «Alcuni non reagivano alle stimolazioni esterne. Altri non riuscivano a muovere le mani o le dita. Come se all’improvviso si fossero paralizzati. Ci rendemmo subito conto di trovarci davanti ad una situazione senza precedenti e dalle proporzioni gigantesche».

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Da quando è iniziata l’invasione russa, centinaia di migliaia di bambini ucraini hanno dovuto abbandonare la scuola, i loro giochi. Sono stati costretti a lasciare le loro città e le loro camerette, a dire addio ad amici e a parenti, per trasferirsi dentro bunker o nei tunnel delle metropolitane. La guerra, molto diversa da come l’avevano immaginata, è una terribile realtà che ha distrutto le loro case, ha ucciso i loro cari. Ha trucidato soprattutto i loro coetanei.

È ancora difficile stabilire il numero effettivo di bambini morti da quando è iniziata l’invasione russa in Ucraina, ma secondo Lyudmyla Denisova, commissaria per i diritti umani del Parlamento ucraino, sarebbero già 177 e 336 (oltre 12 al giorno) i feriti. Il fragore terrificante delle esplosioni, il suono angosciante delle sirene antiaeree, la fuga per le strade alla ricerca di un riparo dai tiri ad altezza uomo, mentre dal cielo piovono bombe, sono ricordi indelebili che s’imprimono come cicatrici sulla memoria dei più piccoli, e diventano traumi, indelebili, con un impatto psicologico devastante sulle loro vite, travolte da un conflitto voluto dai grandi e di cui loro, i bambini, come in ogni guerra, ne pagano il prezzo più alto.

 

«La salute mentale dei bambini più piccoli, fino a due o tre anni, dipende dalla condizione psicologica dei propri genitori, in genere della madre», dice Viktor Balandin, psicologo per la Ong ucraina Osonnya: «Se la madre è in uno stato emozionale stabile, lo saranno in parte anche i suoi bambini. Ed è abbastanza ovvio che questa condizione di stabilità è altamente improbabile in un contesto di guerra. Le cose cambiano per gli adolescenti, i quali sanno perfettamente che cosa sta accedendo. Alla loro età, essi attraversano un processo naturale di elaborazione, adattamento e accettazione del proprio io. Ma troppi cambiamenti nella loro vita, significano più difficoltà ad adattarsi e ad accettarsi».

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Psicologi e psichiatri raccontano di come l’assenza dei padri, costretti a rimanere nelle città assediate dei russi a causa della legge marziale introdotta dal governo ucraino, che vieta di lasciare il Paese agli uomini in salute tra i 18 e i 60 anni e con meno di tre figli, rischia di danneggiare ulteriormente la condizione psicologica dei più piccoli. I bambini, all’improvviso, non possono più contare sulla presenza e sull’appoggio di un altro genitore, mentre tutte le cure e le responsabilità dei propri figli ricadono inesorabilmente sulle mamme, costrette a farsi carico di tutto e per di più in una condizione caotica, di totale emergenza e con poche certezze sul futuro.

 

I traumi s’intensificano poi quando i bambini vittime del conflitto sono orfani, in un Paese che già prima della guerra ne contava circa 100.000 sparsi nei 600 istituti del paese. Senza contare i bambini rimasti soli, affidati dai genitori, che non potevano occuparsi di loro durante il conflitto, nelle mani di volontari, parenti o amici. Per loro, le autorità polacche, insieme alla Caritas, hanno allestito un centro di prima accoglienza a Stalowa Wola, villaggio a circa un’ora e mezzo da Lublino. Lo chiamano «l’hub del sollievo».

Il trattamento di alcuni di questi disturbi richiede terapie immediate e soprattutto costanti nel tempo, due prerogative che un popolo in fuga da una guerra non può permettersi. I bambini ucraini, che arrivano dai villaggi dell’est rasi al suolo dai bombardamenti russi, sono in costante movimento. Scendono da un pullman, per risalire su un’auto o su un treno. Percorrono lunghissime distanze e molto spesso non trascorrono più di due notti nello stesso rifugio. Trascorrono buona parte delle loro giornate a far la fila per qualsiasi cosa: un pasto caldo, un treno in partenza, una coperta, le estenuanti code ai valichi di frontiera prima di entrare in un altro Paese.

 

Per regalare anche poche ore di normalità durante il loro viaggio, Bohdan Tykholoz, direttore della Franko House di Leopoli, dedicata al poeta e scrittore ucraino Ivan Franko, ha messo su un gruppo di artisti, direttori d’orchestra, psicologi ed educatori ucraini che ogni giorno accolgono circa mille bambini, con l’obiettivo di intrattenerli con giochi, canti e soprattutto con i disegni, strumento noto da sempre per l’elaborazione degli orrori e valvola di sfogo del dolore.

 

«L’idea è nata quando i miei due figli e mia moglie hanno dovuto lasciare il Paese e trasferirsi in Germania, subito dopo l’inizio del conflitto», afferma Tykholoz, che ha intitolato il progetto Fun for courage (Divertimento per il coraggio). «Una volta giunta in Germania, mia moglie stilò una lista delle cose di cui aveva bisogno. Il primo era un asciugacapelli. Il secondo: fogli, pennarelli e matite colorate per i miei figli. Quando ho capito che il bisogno più urgente per i miei bambini era quello di creare, disegnare, ho subito pensato a questo progetto. Mi sono detto: se non posso aiutare i miei figli, perché sono lontani, posso aiutare altri bambini».

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L’Espresso ha ottenuto una serie di disegni realizzati dai piccoli rifugiati ucraini, che verranno inviati ai soldati al fronte con l’obiettivo di sollevare il morale delle truppe. Negli schizzi dei bambini c’è tutta la realtà della guerra, con cingolati, bombe, fiamme e soldati, specchio degli incubi dei più piccoli, ma anche colombe, simbolo della pace, prati verdi, fiori, e cieli sereni, a rappresentare il loro bisogno, urgente, di serenità.

 

Ines Testoni, Direttrice del master “Endlife” in Death studies & the end of life dell’Università di Padova, in collaborazione con la presidente degli psicologi ucraini Larisa Rybyk di Kiev, ha lanciato un progetto che punta a studiare i disegni realizzati dai bambini ucraini, attraverso un’analisi comportamentale, e ad offrire ai piccoli gli strumenti per elaborare i loro traumi.

«Il disegno è uno strumento prezioso per i bambini perché permette loro di esprimere ciò che a parole non riescono a dire», dice Testoni: «Nel caso della guerra, è sempre difficile poter raccontare un mondo che perde ogni sicurezza, non tanto per una natura matrigna quanto per la follia umana. L’esplosione della follia causa infatti l’implosione di qualsiasi significato perché fa della morte lo strumento per il perseguimento dei propri scopi. Ebbene, questo è esattamente ciò che i bambini esprimono nei loro disegni».

 

Testoni, che ha di recente lanciato un appello per far arrivare in Italia Larisa Rybyk con l’obbiettivo di lavorare sulla rete di psicologi ucraini che operano con i bambini, spiega di aver esaminato disegni di due tipi: il primo, quelli realizzati da minori che vivono ancora in Ucraina, e il secondo quelli disegnati da bambini che sono stati accolti in Italia o in altri Paesi europei.

«Coloro che sono ancora in Ucraina manifestano la devastazione del trauma subito con tratti incerti, profili disordinati e sconnessi che raffigurano deflagrazioni, bombe, e case distrutte», dice Testoni: «A tratti il segno grafico si decompone e precipita nel disordine per dare forma al “caos fuori” che rispecchia esattamente ciò che la loro interiorità subisce. Coloro invece che sono già accolti in strutture che garantiscono loro un supporto ben strutturato, sono in grado di descrivere ciò che immaginano. E quei disegni esprimono non solo il terrore di aerei, carri armati, armi, cadaveri e piccoli uomini che fuggono, ma anche il bisogno di amore e in particolare l’amore per il loro Paese, manifestato con cuoricini spezzati, disegnati con i colori della bandiera ucraina».

 

«Ciò che questi disegni manifestano è il desiderio di tornare alla vita che conoscevano», aggiunge Testoni: «Faranno dunque molta fatica ad adattarsi al nuovo Paese che li accoglie».

 

Psicologi e psichiatri ucraini, molti dei quali stentano a portare avanti le terapie sotto i bombardamenti, spiegano la necessità di agire al più presto, trasferendo i casi più gravi all’estero, in modo da poter offrire ai bambini terapie immediate, stabilità e un ambiente sereno dove vivere.

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«Suppongo che nei Paesi occidentali, questi bambini riceveranno cure più adeguate», dice Suvalo: «Qui stiamo facendo quello che possiamo. Se questi bambini vivranno in un ambiente stabile, potrebbero anche riuscire a convertire questi traumi in resilienza, come insegna loro la storia del popolo ucraino. Se guardi alla storia del nostro Paese del XX e del XXI secolo, è costellata da traumi. La prima guerra mondiale, la seconda guerra mondiale, l’occupazione sovietica e le rivoluzioni interne degli ultimi 10 anni, fino ad arrivare a questa terribile invasione».

Eppure, dice Suvalo «nonostante queste guerre, nonostante la distruzione, nonostante le bombe e le tragedie, nonostante tutto, siamo ancora vivi».