Grandi gruppi internazionali come Trafigura, Vitol, Glencore e Gunvor in questi mesi hanno moltiplicato i loro guadagni speculando su gas, petrolio, cereali e metalli vari. Senza mai interrompere i loro traffici con la Russia di Putin

Sono i padroni del commercio mondiale. Si chiamano Vitol, Trafigura, Gunvor, Glencore, Cargill. Marchi sconosciuti ai più, perché queste aziende evitano con cura ogni forma di pubblicità. Nate e cresciute nell’ultimo trentennio al traino della globalizzazione, le multinazionali del trading sono guidate da un manipolo di manager che vivono nel culto della segretezza, un’élite di professionisti che dai loro anonimi uffici a Ginevra, Londra, Singapore o Chicago muovono ogni anno milioni di tonnellate di materie prime, gestiscono flotte di petroliere e navi porta container, affittano silos e interi magazzini portuali. Non producono nulla, ma trafficano in petrolio, gas, metalli ad alto valore strategico come nickel e cobalto. E poi frumento, granturco, soia, orzo. La speculazione è il loro mestiere. E lo rivendicano con orgoglio. E così, mentre il mondo è sospeso tra pandemia, guerra e recessione incombente, questi giganti dell’economia globale hanno appena mandato in archivio i bilanci più ricchi di sempre.

 

Nel 2021 il giro d’affari complessivo delle quattro maggiori società mondiali nel trading di materie prime (Vitol, Trafigura, Gunvor e Glencore) ha toccato gli 848 miliardi di dollari, pari a circa 790 miliardi di euro. I ricavi dell’anno scorso sono quasi raddoppiati rispetto ai 480 miliardi di dollari registrati nel 2020, segnato dal Covid, ma sono comunque aumentati di molto anche in confronto al 2019, quando il fatturato arrivò a 676 miliardi di dollari. Vale la pena precisare, giusto per dare un’idea delle dimensioni del business, che l’export italiano, cioè di tutte le imprese del Paese, nel 2021 ha superato di poco i 500 miliardi di euro. Volano anche i profitti: 6 miliardi di dollari per Gunvor (erano un miliardo nel 2020) e 3,1 miliardi per Trafigura, ferma (si fa per dire) a 1,6 miliardi nell’anno in cui esplose la pandemia.

Questi primi mesi del 2022, segnati dalle tensioni commerciali provocate dall’aggressione russa all’Ucraina, offrono nuove occasioni di guadagno per i signori del trading, che cercano di sfruttare al meglio, e molto spesso ci riescono, le fiammate al rialzo dei prezzi delle materie prime. Tra marzo e aprile, per esempio, hanno preso il volo le quotazioni del nickel, ricercatissimo per la produzione delle batterie delle auto elettriche. L’impennata è stata così violenta, con un aumento del 245 per cento nel giro di poche ore, che le autorità del London Metal Exchange sono state costrette a sospendere più volte gli scambi su questo metallo, di cui la Russia è uno dei maggiori esportatori mondiali. Anche alluminio, rame e zinco viaggiano ai massimi di sempre: ad aprile i prezzi erano all’incirca raddoppiati rispetto ai valori medi di gennaio 2020, prima dell’inizio della pandemia. Stesso copione per le materie prime agricole come, per fare qualche esempio, frumento, mais e cotone che in queste ultime settimane si sono stabilizzati su quotazioni superiori di oltre il 100 per cento rispetto a quelle pre-Covid.

 

Gli effetti di questa tempesta per imprese e consumatori sono sotto gli occhi di tutti, con l’inflazione che nell’Unione Europea a marzo ha superato il 7 per cento e l’ombra di una prossima recessione che torna a minacciare l’economia dei Paesi più ricchi. Per i grandi trader, invece, le possibilità di guadagno aumentano a dismisura, ma anche i rischi vengono amplificati dalla forte volatilità dei prezzi, esposti a possibili improvvise correzioni al ribasso. Non ci sono dati ufficiali su profitti e perdite delle multinazionali del trading in queste settimane di caos sui mercati, ma «conoscendo come lavorano, sarei sorpreso se non approfittassero della situazione», afferma Massimo Nicolazzi, manager di lungo corso nel settore dell’energia e docente al Politecnico di Torino.

L’inchiesta
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Un esempio recente aiuta a comprendere come si muovono questi giganti commerciali. Nella primavera del 2020, quando le quotazioni del petrolio crollarono per effetto dei lockdown da Covid, Trafigura e Vitol fecero incetta di greggio che stivarono nei depositi fino a quando i prezzi non ricominciarono a salire. Un’operazione di queste dimensioni, con i relativi enormi guadagni, può essere allestita solo da gruppi che si muovono in un orizzonte globale e possono disporre di risorse finanziarie pressoché illimitate. Nelle scorse settimane, però, perfino questi pesi massimi si sono trovati a corto di liquidità per effetto delle oscillazioni senza precedenti dei mercati.

Jeremy Weir, ceo di Trafigura

I trader, infatti, ricorrono abitualmente a contratti derivati, i cosiddetti futures, per difendersi dalle fluttuazioni di prezzo. Di recente, per effetto dei continui aumenti delle quotazioni, i costi di queste coperture sono diventati sempre più elevati e un gran numero di investitori, compresi quelli più grandi, è stato chiamato a reintegrare con nuovi versamenti i depositi versati a garanzia dei contratti. Già a ottobre del 2021 Gunvor aveva dovuto mettere sul piatto oltre un miliardo di dollari per far fronte alle richieste dei creditori.

 

Questa volta, con le materie prime che fanno segnare di continuo nuovi record al rialzo, l’impegno finanziario è aumentato di molto, a tal punto che a metà marzo, nel timore di non riuscire a reggere l’urto della tempesta sui mercati, l’Associazione europea dei grandi trader ha chiesto alla Bce di ricevere sostegno finanziario sotto forma di linee di credito agevolate. Si spiegano così anche le ultime mosse di Trafigura, guidata dall’australiano Jeremy Weir, che a marzo si è assicurato un prestito di 1,2 miliardi di dollari erogato da un pool di banche, tra cui l’italiana Unicredit.

 

Secondo il Financial Times, il gruppo con base a Ginevra, 231 miliardi di ricavi nel 2021, sarebbe anche pronto ad aprire il capitale al fondo americano Blackstone. Queste provviste di liquidità servono a proteggersi dalle fluttuazioni dei prezzi, ma nel frattempo i colossi del trading sono pronti a cogliere nuove opportunità di profitto sfruttando le rotte commerciali sconvolte da guerra ed embargo.

 

Una delle materie prime più ricercate in questi mesi è il Gnl, il gas naturale liquido trasportato via mare che può sostituire quello proveniente dalla Russia via pipeline. Gruppi come Trafigura e Vitol si trovano nella posizione ideale per intercettare il gran traffico di navi metaniere in movimento da un continente all’altro. A marzo è stata l’Eni a pagare il conto del caos sul mercato. Tre carichi di Gnl venduti dalla società italiana con destinazione Pakistan sono stati dirottati verso l’Europa. Trafigura, che gestiva il trasporto, ha approfittato del boom dei prezzi incassando una somma di gran lunga superiore alla penale pagata per il cambio di rotta.

 

L’episodio conferma che i big del commercio si trovano nella posizione ideale per approfittare dei venti di guerra che soffiano sui mercati. E poco importa se l’Ucraina ha chiesto ai grandi trader di sospendere le forniture di idrocarburi provenienti dalla Russia. Secondo un’indagine di Global Witness, una Ong, nel solo primo mese di guerra Glencore, Gunvor, Trafigura e Vitol hanno consegnato almeno 20 milioni di barili di petrolio per conto di Mosca. Come dire che il flusso è rimasto all’incirca agli stessi livelli del periodo prebellico. «Ma quelle sono forniture previste da contratti siglati in passato, molto prima dell’attacco a Kiev», si sono difesi i trader chiamati in causa. Un’affermazione difficile da verificare. Di certo, tutti gli osservatori sono concordi nel segnalare che nonostante le dichiarazioni di principio dei governi e dei petrolieri, l’oro nero di Putin continua ad affluire in gran quantità in Europa

 

A marzo ha fatto molto rumore il caso di una partita da 725 mila barili targata Rosneft, la più importante compagnia petrolifera russa. Dopo più di una settimana di offerte cadute nel vuoto, Trafigura ha infine trovato un compratore: il greggio è stato acquistato da Shell, che ha approfittato di un forte sconto. Nessuno sembra disposto a rinunciare ai maxi profitti garantiti da un mercato in cui le quotazioni del petrolio viaggiano da settimane ai massimi dell’ultimo decennio. Tanto meno sono disposte a fare un passo indietro gruppi come Vitol e Trafigura che sono da tempo soci d’affari del Cremlino. Entrambe, per esempio, partecipano insieme a Rosneft al progetto Vostok Oil per estrarre petrolio nell’Artico. Un affare colossale, in cui le due società hanno investito svariati miliardi di dollari. Difficile fare marcia indietro, adesso. Meglio far finta di nulla e continuare a cavalcare il boom delle materie prime.