Parlare di lavoro significa analizzare dati: ma esistono diversi indicatori da prendere in considerazione. Ad esempio il tasso Istat della mancata partecipazione al mercato risulterebbe oggi circa il doppio rispetto a quello di disoccupazione

I dati economici riferiti all’ultimo trimestre del 2021 danno l’impressione di un’Italia sulla via della ripresa, con un rimbalzo del Pil del 6,2 per cento su base annua e un miglioramento analogo degli indicatori del mercato del lavoro. Le stime preliminari sui primi mesi del 2022 indicano tuttavia scenari meno luminosi, che possiamo considerare realistici sia per gli incerti sviluppi della pandemia di Covid-19, sia per l’inevitabile impatto, ancora imprevedibile nella sua portata, della grave crisi internazionale in corso.

 

Quali dunque le prospettive per l’occupazione, e in particolare per quella giovanile, in questo incerto scenario? Le stime che stanno circolando in queste settimane non permettono conclusioni affrettate. La prudenza nella valutazione dei dati statistici sul lavoro è una delle tante lezioni che la storia può dare. Se consideriamo ad esempio la misurazione della disoccupazione, sappiamo che, da quando è stata concepita all’inizio del Novecento, essa ha sempre posto complessi problemi di definizione del fenomeno e raccolta dei dati. Fino agli anni Cinquanta abbiamo avuto a disposizione solo informazioni molto parziali e imprecise, in assenza di reali politiche per l’occupazione. Con le prime indagini dell’Istat, nell’Italia avviata verso il «miracolo» economico, le cose iniziarono a cambiare, anche se a partire dagli anni Settanta economisti e sociologi cominciarono a evidenziare che non tutti i disoccupati rientrano nella stima ufficiale del tasso di disoccupazione (un indicatore che tiene conto solo di chi cerca attivamente un lavoro). In quel decennio, che vide la prima frenata dai tempi del «boom» economico, alcune ricerche indicarono l’esistenza di una parte della disoccupazione non visibile alle statistiche ufficiali, facendo riferimento ai cosiddetti «lavoratori scoraggiati» (coloro che rinunciano alla ricerca del lavoro perché convinti di non poterlo trovare).

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Se dunque i dati ufficiali sulla disoccupazione non ci raccontano tutta la verità, analogo discorso vale per quelli riferiti all’occupazione. Nello scenario attuale, infatti, l’aumento del tasso di occupazione si associa a una crescita del lavoro precario, a tempo parziale o sottopagato, proveniente da quell’«esercito industriale di riserva» che, nell’accezione che ne dava già Marx nell’Ottocento, include non soltanto i disoccupati espliciti, ma anche il più vasto mondo della precarietà occupazionale e della sottoccupazione.

 

In realtà rispetto al passato oggi non mancherebbero indicatori più raffinati capaci di rendere conto del disagio occupazione. Tra quelli elaborati dall’Istat, per esempio, è di particolare interesse il «tasso di mancata partecipazione», che tiene conto non solo dei disoccupati in senso stretto, ma anche di chi, pur non cercando un lavoro, è disponibile a lavorare. Un indicatore che, per avere un’idea di massima, risulterebbe oggi circa il doppio rispetto al più familiare tasso di disoccupazione, attualmente intorno al valore già alto del 10 per cento.

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Uno sguardo critico ai dati, con un occhio alle esperienze storiche del passato, è dunque una precondizione per leggere la situazione che l’Italia sta vivendo, specialmente ora che nuove nubi si addensano all’orizzonte, sia per l’emergenza sanitaria, tutt’altro che esaurita, sia per la guerra che si protrae nel cuore dell’Europa. In ogni caso sarà certo difficile immaginare significativi avanzamenti nelle condizioni dei lavoratori, specialmente dei più giovani, in assenza di una forte iniziativa politica e sindacale.

 

*Manfredi Alberti è ricercatore di Storia del pensiero economico. Dipartimento di Scienze politiche e delle relazioni internazionali Università degli studi di Palermo