Nel capitalismo di oggi siamo tutti sempre al lavoro perché consumare è produrre. E il sistema genera disuguaglianze intollerabili, mentre la politica (soprattutto di sinistra) resta succube di dinamiche ormai superate

Salario, triste, cupa parola come lavoro, labor, lapsus sum, sto a terra, fatico, travail, travaglio. Salario, amaro come il sale. La pena del lavoro ripagata con l’amaro di una dose di sale, necessaria certo, ma per sopravvivere e basta.

 

Una volta si pensava almeno che la quantità di sale con cui la fatica veniva remunerata potesse misurare il grado della produttività di quest’ultima e quindi del suo sfruttamento. Erano soggettività a confronto; si poteva quasi immaginare un duello tra personalità. Vi era, da una parte, nelle sue varie maschere il borghese, il capitalista, dall’altra la forza-lavoro impiegata dal capitale che assumeva coscienza, scientifica coscienza, del proprio sfruttamento e si organizzava politicamente come classe, classe operaia. La lotta intorno al salario assumeva, in questo quadro, una valenza ben più che economica. Esigere più salario diventava simbolo della coscienza del proprio essere agente fondamentale del processo di accumulazione e della crescita della ricchezza complessiva di un Paese, e, allo stesso tempo, del rifiuto di ogni forma di lavoro comandato. Nella lotta per il salario, come in quell’altra, del tutto complementare a questa, che ha caratterizzato la storia del movimento operaio, per la riduzione dell’orario di lavoro, la classe operaia otteneva certamente formidabili effetti sulla distribuzione della ricchezza, ma a un tempo, indubitabilmente, intendeva affermarsi come classe politica dirigente, classe generale.

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Questa grande storia, nei suoi conati utopistici come nei suoi straordinari effetti pratici, si è conclusa in tutto l’Occidente intorno al ’69. Fattori diversissimi hanno prodotto questa fine: certamente anche il crollo di quella teoria dello sfruttamento che si fondava sulla quantità di salario: certamente la progressiva e drastica riduzione del lavoro operaio di massa: certamente la riorganizzazione del lavoro comandato in ogni settore. Ancor più, la nuova globalizzazione ha ridotto alla quasi impotenza le tradizionali forme di lotta sindacale, chiuse come sono in orizzonti nazionali. Credo tuttavia che la ragione fondamentale sia un’altra - e tale da poter forse inaugurare una nuova storia. Il rapporto sociale capitalistico di produzione e l’attuale capitalismo finanziario mettono l’intero globo al lavoro e al proprio servizio.

 

Determinare quale sia, dove si esprima il lavoro davvero produttivo di ricchezza è diventato impossibile - o, meglio, è sì possibile, ma occorre sapere esso pervade ogni settore, ogni nodo della rete, si dirama per ogni fibra del tessuto economico-sociale: è quello che ho chiamato in un mio saggio il lavoro dello spirito - anima di ogni forma di lavoro e insieme, come l’anima appunto, inafferrabile: si tratta del grande sistema dell’operare tecnico-scientifico, il motore dei formidabili processi innovativi che hanno conosciuto negli ultimi decenni (di nuovo dagli anni ’70 ) una accelerazione straordinaria e quasi imprevedibile, che ha spiazzato non solo istituzioni politiche, sindacati e partiti, ma anche le nostre forme di vita, la nostra stessa mente.

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Questi processi riducono sempre più nei paesi metropolitani il tempo di lavoro necessario, ma non eliminano affatto la forma dipendente e comandata del lavoro, non eliminano affatto la sua subordinazione agli imperativi di profitto del sistema economico-finanziario. Il lavoratore, che continua a essere comandato, ha più tempo libero. Ma questo tempo libero non viene remunerato! O soltanto in termini residuali. L’amaro salario è soltanto per chi timbra ancora il cartellino o pressappoco. Agli altri non viene riconosciuto, agli altri spetta soltanto, se va bene, una assistenza.

 

Il lavoro produttivo sembra così concentrarsi in alcune funzioni, comandate certo anch’esse dalla logica del sistema, ma remunerate infinitamente più di quelle ritenute meccanico-ripetitive, per non parlare ovviamente delle crescenti masse dei precari, di coloro, cioè, costretti a implorare un reddito di sopravvivenza. E sono soprattutto masse di giovani: una indagine perfino benevola ci dice che 1 giovane su 4 fa la fame nel nostro Paese (ma almeno 1 su 2 sopravvive decentemente perché custodito in seno dall’antica famiglia).

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Ho detto che la produzione di ricchezza sembra il frutto soltanto di alcune funzioni “creative”, ma non è così. La realtà è che nel mondo contemporaneo tutti siamo al lavoro ed è il cervello sociale nel suo complesso, nell’insieme delle sue attività, a garantire la crescita. Tutti debbono perciò esserne considerati funzione indispensabile; lo stesso consumo è oggi infinitamente più che nel passato produzione: la produzione di consumo è fattore primario del rapporto sociale capitalistico. Coloro che non sono de facto inseriti in un contesto di lavoro comandato non vanno visti come “disoccupati”, ma persone attive autonomamente, imprenditori di sé o potenzialmente tali. E remunerati di conseguenza.

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La ricchezza prodotta deve essere distribuita secondo questi nuovi criteri. Quello arcaico che commisura salario e stipendio a tempo di lavoro o a unità di prodotto crea, nel mondo contemporaneo, disuguaglianze crescenti e intollerabili. Le condizioni scientifico-tecniche consentono di pensare secondo questa prospettiva in termini realistici. Essa è contrastata dalla logica del capitalismo finanziario e la debolezza estrema della politica nei suoi confronti, quando non la sottomissione, non va oltre, se va bene, a pratiche assistenziali. Il conflitto sociale prossimo venturo nei paesi occidentali si giocherà su questo terreno - a meno che una logica di guerra non lo neutralizzi fino ad annullarlo.