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Attualità
luglio, 2022

L’appello del Nobel Giorgio Parisi: «Basta perdere tempo: servono dieci miliardi per la ricerca»

«Con la prossima Finanziaria il Governo istituisca un fondo per sostenere la ricerca scientifica almeno fino al 2028. Altrimenti non recupereremo mai il gap con gli altri paesi e continuerà la fuga dei cervelli». Parla il premio Nobel per la Fisica e docente di Fisica Teorica all’Università la Sapienza

Premio Nobel per la Fisica e docente di Fisica Teorica all’Università la Sapienza, Giorgio Parisi torna a parlare dell’urgenza di salvare la ricerca in Italia. L’occasione sarà il centenario dell’Unione di Fisica Pura e Applicata che si svolgerà a Trieste fra il 10 e il 13 luglio, dove si sono dati appuntamento i premi Nobel di tutto il mondo per raccontare come la Fisica e la scienza siano importanti per lo sviluppo dell’umanità. Si parlerà di guerra in Ucraina, di nucleare, di sottofinanziamento alla ricerca. Quest’ultimo sarà proprio l’argomento toccato da Parisi.

 

Professore, ci dà un’anteprima?
«È positivo che il Piano di Ripresa e Resilienza punti 17 miliardi di euro su alcuni settori della ricerca applicata e di base, fondamentali per il paese e finora sottovalutati. Tuttavia queste risorse offrono uno sviluppo drogato perché i fondi si interrompono bruscamente nel 2027. Per evitare questo brutale definanziamento è necessario che il governo, già con la prossima Finanziaria, istituisca un fondo da 10 miliardi di euro per sostenere la ricerca scientifica almeno fino al 2028 e comunque per il prossimo decennio».

 

Tra gli obiettivi del Pnrr c’è la creazione di 30mila borse di studio per dottorati, 120 borse per giovani ricercatori e si intende assumere mille nuovi ricercatori a tempo determinato. Non bastano?
«Come ha detto lei, gran parte delle risorse finanziano ricercatori con contratto a termine. Senza la garanzia di inserimento stabile, almeno per chi ha dimostrato di saper fare ricerca in modo egregio, rischiamo di sprecare questa occasione».

 

In termini assoluti l’Italia fa registrare l’investimento più alto: 17 miliardi, contro i nove di Germania e Francia e i quattro della Spagna. Non bastano a colmare il gap con gli altri Paesi?
«Non bastano neppure per agganciare la Francia, rispetto alla quale abbiamo un sottofinanziamento medio annuo di cinque miliardi. Siamo lontanissimi da Paesi come Germania, Inghilterra, Finlandia. Ci sono Paesi, come l’Olanda, che hanno da poco avviato un programma per la creazione di un fondo decennale che ogni anno destina un miliardo di euro per lo sviluppo delle idee dei ricercatori. Anche a noi serve un progetto simile se vogliamo attrarre le menti più brillanti».

 

Così facendo non si rischia di disperdere risorse in piccoli progetti?
«La scienza è come l’agricoltura, alcune coltivazioni vanno annaffiate, ma c’è bisogno di pioggia per un buon raccolto. Bisogna sviluppare mille idee per un risultato ottimo».

 

Esistono dei settori in particolare su cui puntare?
«La scienza deve crescere tutta insieme, nessuno va lasciato indietro. Il Pnrr investe soltanto su alcuni settori della ricerca scientifica, lasciandone scoperti altri. Ad esempio, è giustissimo sostenere la ricerca di base sui nuovi virus, ma è importante non lasciare indietro gli studi sulle malattie cardiopatiche e l’obesità. E nell’informatica, è sacrosanto dedicare risorse all’Intelligenza Artificiale, ma c’è lo studio degli algoritmi e delle telecomunicazioni da non sottovalutare. Quindi lo Stato, in base a un principio di sussidiarietà, deve occuparsi delle altre aree scientifiche attraverso il proprio bilancio ordinario. E torniamo al mio appello: alla ricerca servono 10 miliardi in Finanziaria per avere una visibilità almeno al 2028».

 

E se il Governo non dovesse ascoltare il suo appello?
«Nel campo della ricerca scientifica la bilancia commerciale è totalmente sbilanciata sull’export di capitale umano. È un tema cruciale ed è necessario tornare a parlarne seriamente e subito perché la situazione è insostenibile. Stiamo popolando i dipartimenti delle università straniere di eccezionali docenti e scienziati italiani: questo per l’Italia si traduce in un’immensa dispersione di risorse in termini di investimento in formazione e di competenze. Tutto ciò sarebbe accettabile se vi fosse un’altrettanta importazione di cervelli stranieri, uno scambio di risorse, che tuttavia non avviene perché qui da noi non c’è alcuna garanzia di continuità di finanziamento della ricerca ed è scarsa la possibilità di accedere ai bandi pubblici. Ci sono delle facoltà in cui a stento si trovano ricercatori disposti a lavorare a Roma e più le figure sono apicali, più la selezione diventa ardua, perché nessuno scienziato sceglie di puntare sull’Italia, dove i fondi alla ricerca sono in contrazione da anni. Di più, siamo al paradosso: lo Stato investe cinquantamila euro l’anno per ciascun ricercatore, ma non offre le risorse per sostenere i progetti di ricerca veri e propri. Senza un modello di sostegno alla ricerca di lungo periodo, i bravi ricercatori che formeremo con i soldi del Pnrr, allo scadere del contratto, porteranno il proprio bagaglio di competenze e conoscenze all’estero, poiché l’Italia non offrirà le risorse per farli proseguire nei propri studi».

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