La collezione allestita in una vita da Luigi Carlon, trasferita dalla sua abitazione a Palazzo Maffei, acquistato e restaurato. Dopo due anni gratis, il ticket serve ora per nuove acquisizioni

Nei suoi occhi, fin da bambino, ci sono stati i colori e le forme dell’arte. Li ammirava nelle chiese, quando i genitori lo portavano a messa, e ha continuato a cercarli nelle case d’asta di tutto il mondo, mentre il tempo ne scandiva i traguardi professionali e i sogni si trasformavano in realtà. Così, tra fascinazioni e scommesse, fino a quando all’esplorazione non si è affiancato il desiderio della condivisione che lo ha spinto a osare ancora una volta. Nasce dal bisogno di offrire una scena alla sua caleidoscopica passione collezionistica la casa-museo che l’imprenditore e cavaliere del lavoro Luigi Carlon, innamorato delle cose belle non meno che della sua città d’elezione, è riuscito a realizzare all’interno del secentesco Palazzo Maffei di piazza delle Erbe, a Verona.

Una location a sua volta preziosa, con la facciata barocca, l’imponente scalone elicoidale, gli stucchi del piano nobile e la balconata panoramica, scelta e acquistata dopo lungo corteggiamento proprio perché era in quella speciale cornice, concepita come una wunderkammer in cui dare dimora e sintesi alle arti, che aveva immaginato di trasferire il patrimonio di altissimo pregio artistico e valore affettivo raccolto negli anni. Più di 600 opere, testimoni di oltre sette secoli di storia, tra pitture, sculture e oggetti d’arte applicata, a disposizione della collettività, e dei giovani in particolare. Come nelle più classiche storie di mecenatismo, insomma. Perché nella testa dei capitani d’impresa non c’è soltanto l’arida ripetitività di numeri e scadenze, ma brulica anche una fucina di pensieri in continua evoluzione. «L’industriale lavora molto con la creatività: fa ricerca, produce prodotti innovativi e studia strategie di marketing per anticipare la concorrenza e imporsi sui mercati internazionali. Un percorso per certi versi simile a quello del collezionista», dice Carlon, dall’alto dei suoi 83 anni di vita ed esperienza e oltre sessanta di attività, prima come impiegato alla Banca cattolica del Veneto e, dal 1978, alla guida della Index, l’azienda che lui stesso costruì da zero, vendendo di giorno gli isolanti che caricava sui camioncini di notte, e ceduta nel 2020 alla multinazionale svizzera Sika, dopo averla fatta crescere fino a diventare leader mondiale nel settore dell’impermeabilizzazione. «Sono sempre stato attratto dall’arte e i miei viaggi all’estero, nei cento e più Paesi in cui esportavamo, dagli Usa al Giappone dove a metà anni Ottanta avevamo già i nostri stabilimenti, mi hanno permesso di espandere le mie conoscenze tra musei e gallerie», spiega, elencando le epoche incrociate nelle sue ricognizioni, dall’età greco romana a quella contemporanea, passando attraverso il medioevo, il rinascimento, il barocco e il futurismo.

Ma è nei cenacoli veronesi che la formazione comincia. «Negli atelier dei pittori locali, che per sbarcare il lunario vendevano ai turisti dipinti dozzinali, ma che sentivano già le spinte dall’America, iniziai a guardare con interesse all’espressionismo astratto di Pollock. Poi, frequentando gli antiquari, la mia attenzione si spostò anche sull’antichità. E nel tempo libero, per conto mio, mi documentavo leggendo di tutto: dai libri d’arte, all’enciclopedia Fabbri e alle riviste, di cui aspettavo con impazienza l’uscita in edicola», ricorda. Finché, affinate le conoscenze, gli acquisti non puntarono a un unico obiettivo: dare compiutezza e organicità alla sua ormai ampia e diversificata collezione, per farne un percorso didattico fruibile da tutti. «Le opere, stipate com’erano nella nostra dimora trecentesca, soffrivano. Compresi allora che avrei dovuto trovare uno spazio vitale in cui trasferirle». La soluzione si presentò dieci anni fa. «Quando le Generali misero all’asta Palazzo Maffei, cui puntavo anche per l’importanza della posizione, colsi al volo l’occasione. Nella mia camera da letto c’era un’opera del pittore veronese Carlo Ferrari, detto il Ferrarin: ritraeva piazza delle Erbe e sullo sfondo c’era quello splendido edificio. Tutte le sere, mi addormentavo guardandolo e chiedendomi se mai avrei realizzato il sogno di possederlo. Mi ha portato fortuna», racconta Carlon.

È stata Gabriella Belli, che dopo avere guidato per oltre vent’anni il Mart di Rovereto, ora dirige la Fondazione musei civici di Venezia, a concepire l’idea museografica e dare vita e corpo al percorso espositivo, in collaborazione con lo studio Baldessari e Baldessari, che ha curato il progetto architettonico e l’allestimento. Il risultato è sorprendente, perché conferisce una dimensione di intima familiarità al tesoro e alle 28 sale che lo ospitano. Come se il palazzo, a sua volta inaugurato dopo un importante intervento di restauro, fosse per davvero un’abitazione privata arredata con pezzi da museo, tra autentici capolavori e accostamenti audaci, in linea con il gusto ecclettico del padrone di casa. «L’arte suscita piacere e va gustata», osserva Carlon: «Non volevo la classica pinacoteca, dove la monotonia dell’allestimento appesantisce l’approccio ai quadri e fa scattare nel visitatore il desiderio di scappare via. Pensavo piuttosto a un ambiente che, grazie all’inserimento di mobili e arredi di pregio, potesse interrompere il passo e tenere sempre viva l’attenzione». Da qui, la scelta di raccogliere le opere secondo un doppio criterio cronologico e tematico, mettendo a confronto sensibilità ed epoche anche molto distanti e creando così arditi cortocircuiti emotivi tra l’antico e il contemporaneo. La guerra, per esempio, interpretata attraverso le battaglie barocche di Antonio Calza, le Combustioni su tela nera di Alberto Burri e la terracotta informe di Leoncillo. O le figure femminili, rappresentate nell’iconografia classica della Cleopatra di Giambettino Cignaroli del 1770 e nell’inquietudine della Medusa in ceramica di Lucio Fontana. E ancora, giocando su contaminazioni e dialoghi solo apparentemente impossibili, l’accostamento dei tagli su fondo rosso di uno dei Concetti spaziali dello stesso Fontana con un trittico con crocifissione e santi su fondo oro del secondo maestro di San Zeno. Come pure, nella sala della Mater amorevolissima, la monumentale Maternità di Arturo Martini, circondata da rappresentazioni della Madonna con Bambino dal Quattro al Settecento.

«Ogni tanto ho provato a mettermi di mezzo, ma ho fatto soltanto danni», scherza Carlon, che insieme alla moglie Cristina, dopo il trasloco, si è rassegnato a vivere circondato da pareti all’improvviso «più spoglie» e a rinunciare così al piacere che, per anni, gli aveva trasmesso la contemplazione di capolavori della caratura della Strage degli innocenti di Simone Brentana, tanto per citare uno dei pezzi da novanta della collezione. Ma anche di altre chicche, dai mobili antichi in lacca cinese, alle incisioni di Andrea Mantegna e dal Ratto di Elena acquistato dal Metropolitan museum di New York, al porta caviale in cristallo di Fabergé che fu di uno zar, diventate ormai parte integrante della loro quotidianità. Sacrifici compensati dalla soddisfazione di avere creato un’eccellenza culturale nel cuore della sua città e di averne fatto il motore per collaborazioni e incontri tematici attenti a ogni forma espressiva. Prima di lui, a centrare il nobile intento di comunicare l’arte aprendo forzieri privati erano stati pochi altri imprenditori. Lo aveva fatto Luciano Nicolis a Villafranca, a due passi da Verona, con un “museo non museo” dell’auto, della tecnica e della meccanica. E ci era riuscito Francesco Federico Cerruti, al castello di Rivoli. Carlon, che nella sua vita di imprenditore ha sempre creduto nel coinvolgimento e nella premialità, anche economica, della propria squadra, al punto da «distribuire incentivi in denaro ai collaboratori che si sposavano o che avevano figli», per i primi due anni ha garantito l’ingresso libero alla collezione. Poi, però, tra oneri e costi di manutenzione, si è reso necessario introdurre un biglietto (intero 14 euro, ridotto 6). Un «obolo», spiega, interamente reinvestito nel palazzo. Che ovviamente continua a essere implementato di nuovi arrivi. Anche perché alle tentazioni, per un intenditore come lui, è difficile resistere.

 

Prova ne sia l’ala interamente dedicata al futurismo, impreziosita dalla copia originale, acquistata a un’asta da Sotheby’s, a Parigi, del quotidiano Le Figaro che il 20 febbraio del 1909 pubblicò il “Manifesto del Futurismo” di Marinetti e, nella teca accanto, dalla prima pagina del quotidiano L’Arena (all’epoca senza l’articolo) di Verona, che il 9 febbraio era riuscito ad anticipare la notizia. In apertura, il celebre quadro Futurismo rivisitato a colori con cui Mario Schifano riprese in chiave pop la foto che ritraeva Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini alla loro prima mostra a Parigi, nel 1912, e tutt’intorno, le opere dei più importanti esponenti del movimento, da Boccioni a Balla. E ancora, in un’esplosione di avanguardie, il viaggio tra suggestioni metafisiche, surrealismo e realismo magico, con le opere di Magritte, Chirico, Duchamp, Picasso, Wharol, Morandi, Afro e Cattelan, tra i tanti. E i contemporanei, con Nannucci, Dynys, Sassolino. Ma anche Canova, con una sala dedicata. Infine, l’area delle riflessioni: sull’uomo, il cosmo, l’infinito. E, solo nella project room, Lotus, il fiore del futuro della star dell’innovazione creativa Daan Roosegaarde.

Da giugno, a Verona si respira un’aria nuova. A portarla è stata l’elezione a sindaco del candidato di centrosinistra, Damiano Tommasi, ex calciatore e neofita della politica. «Come in tutto, è giusto che ci sia un’alternanza: serve a uscire dalla zona di comfort», commenta Carlon, che al primo cittadino guarda con la fiducia di chi sa cosa significhi partire da zero. «Sono certo che ce la metterà tutta e mi auguro che presti un’attenzione particolare alla cultura: Verona, con la sua tradizione di musica e teatro, meriterebbe finalmente qualcosa di importante».