Ora che si è ristretto il campo largo è il momento giusto per definire una proposta politica autonoma

Si può piangere sull’accordo mancato, sul Calenda versato. Oppure trasformare un limite in un’opportunità, guardare a una prospettiva più lunga delle elezioni di domani. Meglio perdere con le proprie idee che vincere con le idee altrui diventa allora uno slogan che non allude alla volpe e l’uva ma potrebbe essere la base di un progetto di respiro largo.

Enrico Letta aveva bisogno di più tempo per tessere la tela del suo campo largo, epigono, anche se i paragoni sono tutti zoppi, dell’Ulivo degli Anni Novanta. Romano Prodi lo ebbe, quel tempo, quando fu indicato come il “papa straniero” capace di federare il centro-sinistra, vincere la competizione con Berlusconi, plasmare la sua creatura arborea.

La fretta, in questo caso invero obbligata, non è buona consigliera quando si tratta di tentare una fusione fredda tra sensibilità molto diverse. Davanti a sondaggi catastrofici che davano e danno la destra sola al comando, Letta ha tentato l’azzardo contando che fossero uomini di buona volontà quelli desiderosi di fermare l’onda sovranista, costasse quello che costasse, persino ingoiando i rospi di alleanze contro natura davanti al pericolo incombente. Dimenticandosi, tuttavia, che doveva essere il suo Pd il magnete, il polo d’attrazione, grazie a un programma che ne delineasse l’identità oltre un’agenda Draghi oltretutto senza Draghi. E non facendo i conti con la “pipolizzazione” (la riduzione a puro spettacolo) di una politica troppo legata all’egolatria di leader e leaderini peraltro assai lontani dal consenso del democratici. Sarebbe stata proprio la forte caratterizzazione identitaria a raggrumare attorno al partito-forte della coalizione i più prossimi, come naufraghi allo scoglio di una salvezza.

Ora, ristrettosi il campo largo, è il momento giusto per definire una proposta politica autonoma, grazie ad alcune circostanze favorevoli.

Ridotta alla marginalità la sinistra estrema, resta il Pd di Letta come unico partito portatore con qualche chance di successo, se lo vorrà, di istanze di sinistra a cui aveva rinunciato. Partendo da alcune considerazioni inoppugnabili.

Nel recente passato, in Occidente, la sinistra ha vinto solo quando si è presentata con un programma radicale: Tsipras in Grecia, Zapatero e Pedro Sanchez, in Spagna, Antonio Costa in Portogallo, tutti Paesi del Mediterraneo. E allagando gli orizzonti, Obama negli Stati Uniti. Se si vuole persino Mélenchon in Francia che ha sfiorato il miracolo rianimando una sinistra sfiatata persino nella sua componente socialista.

Il combinato disposto di pandemia e guerra in Ucraina ha allargato la forbice ricchezza-povertà, riprodotto una divisione in classi, rilanciato la necessità di una redistribuzione del reddito contro il mercatismo imperante. Il terreno ideale per riscoprire valori antichi mai passati di moda e per sfidare una destra che insiste nei regali ai ricchi avanzando ad esempio, e senza vergogna, l’idea della flat tax.

Sarebbe, questa, una sinistra che riprende finalmente a parlare al suo elettorato naturale, in larga parte scippato dalla destra delle vane promesse della prosperità per tutti. Sarebbe un buon modo intanto per presentarsi con un volto rinnovato alle elezioni imminenti. E dovesse anche andare male il 25 settembre, come da pronostici pressoché unanimi, sarebbe l’inizio di una semina destinata a dare frutti nel futuro grazie a una coerente distinzione rispetto alle altre proposte politiche, tutte simili in materia di economia: il settore in cui normalmente si gioca il consenso alle urne. Perdere con le proprie idee non piace a nessuno, perdere con quelle degli altri è ancora peggio. E con un elettorato sempre più volatile, comunque non è detto che si perda.