La soluzione del conflitto può risiedere in questo status di cui l’Occidente dovrebbe farsi promotore. Un Paese cuscinetto che salvaguardi integrità e indipendenza

Alcune premesse prima di entrare nel merito del conflitto russo-ucraino: la condanna di Putin è senza se e senza ma, eppure la posizione dell’Italia non può essere quella che è; l’alleanza con la grande democrazia americana, che ci ha manifestato amicizia vera in momenti terribili della nostra storia, va preferita incondizionatamente a una dittatura feroce e pronta a calpestare ogni diritto fondamentale dell’uomo. D’altra parte il Compendio della dottrina sociale è molto chiaro al riguardo: «Una guerra di aggressione è intrinsecamente immorale. Nel tragico caso in cui essa si scateni, i responsabili di uno Stato aggredito hanno il diritto e il dovere di organizzare la difesa anche usando la forza delle armi».

 

Fatte queste premesse, ovvie, salvo che nel nostro Paese dove il politically correct è ormai diventato più importante della vita e della morte, possiamo fare alcune riflessioni. Innanzitutto questa guerra va fermata subito perché le conseguenze, già tragiche per il popolo ucraino, stanno diventando esiziali per l’Europa (minacciata e marginalizzata) e potrebbero diventarlo anche per il resto mondo. Nessun protagonismo personale o nazionale può giustificare una tale sofferenza e la perdita di tante vite umane, neppure quello dello showman-motivatore in t-shirt militare che ha saputo creare il fascino dello stoicismo nazionalista sul modello dei samurai-kamikaze.

 

Ma come si ferma la guerra?

 

Dobbiamo partire allora da alcuni dati oggettivi: l’Ucraina è un Paese culturalmente diviso da centinaia di anni e la linea di demarcazione, ossia il corso del Dniepr, è considerato il punto di rottura tra la civiltà occidentale e quella ortodossa. Il Trattato di Andrusovo del 1667 divise l’attuale territorio in due fino alla seconda guerra mondiale: a Est quello dominato dai Russi e a Ovest dalla Polonia.

 

Secoli di storia non possono essere azzerati da un desiderio di Occidente per suggestivo che sia, tanto più che l’uso di sei lingue a Ovest e di una a Est ha confermato nel secolo scorso questa divisione. La fine del regime zarista nel 1917 fu l’occasione del primo tentativo indipendentista, mentre gli zar avevano annientato nel sangue ogni velleità. La guerra civile che ne conseguì venne vinta dai russofili nel 1920 e così l’Ucraina venne annessa all’Unione Sovietica nel 1922, con un cambiamento di regime sociale, soprattutto nelle campagne. Ciò produsse, tra il 1929 e il 1933, una tragica carestia da collettivizzazione forzata, che causò circa 4 milioni di vittime. La Seconda guerra mondiale provocò atri 8 milioni di morti un Paese sempre diviso a metà, stavolta con i nazisti, accolti come liberatori, che pensarono di annettersi l’Ovest del Dniepr e con 150.000 soldati ucraini dell’Ovest che si arruolarono nell’esercito tedesco. A Est invece si assistette a un guerra di mero sterminio.

 

L’indipendenza è storia recentissima. La fine del regime socialista liberò tutte le forze in campo, senza più nessun controllo esterno. Si è trattato di una fenomenologia analoga a quella della Jugoslavia degli anni Novanta, visto che la dittatura di Tito aveva solo apparentemente cancellato le differenze etniche e religiose del Paese. Qui si tratta di una contrapposizione meno articolata tra due culture, obliata fino a quando l’Ucraina è rimasta nell’orbita sovietica.

 

La posta in palio è particolarmente importante sia per la Russia che per l’Occidente, non solo sul piano geopolitico, perché l’Ucraina è un Paese ricco di potenzialità agricole, naturali e industriali su un vastissimo territorio. Già la proposta fatta dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna nel 2007 di farla diventare membro della Nato fu vissuta come una provocazione. Fortunatamente Germania e Francia si opposero, ma le cose erano ormai deflagrate. Grazie alle nuove elezioni del 2010 il pro-russo Yanukovich tornò al potere, ma il 21 febbraio 2014, dopo tre mesi di proteste, concluse in uno spasmo di violenze mortali, si dette alla fuga.

 

La Rada aveva nominato un leader ad interim in attesa delle elezioni. Intanto le forze russe erano giunte in Crimea e avevano iniziato un’occupazione di fatto ancora oggi in essere. Contestualmente, nella regione del Donbass manifestazioni di gruppi filorussi e antigovernativi si erano trasformate in una guerra aperta tra forze separatiste sostenute dalla Russia ed esercito ucraino, corroborato da volontari. Le vicende successive sono a tutti note.

 

Chiediamo, allora, perché non riscoprire la strategia dello Stato cuscinetto, da porre tra due grandi blocchi potenzialmente ostili. Gli Stati cuscinetto, quando sono veramente indipendenti, perseguono una politica di neutralismo che li distingue dagli Stati satelliti. La loro concezione fa parte della teoria del bilanciamento dei poteri, inventata dai Romani e già utilizzata nelle diplomazie europee nei secoli scorsi. Peraltro la neutralità è un concetto che è stato progressivamente codificato nel diritto internazionale, a partire dalla Convenzione dell’Aia del 1907.

 

Secondo la pratica internazionale, i Paesi che si dichiarano neutrali non partecipano a conflitti armati e rifiutano l’accesso territoriale a tutti i belligeranti, ad eccezione degli aiuti umanitari.

 

L’Europa rilanci il concetto di “Partenariato per la pace” utilizzato negli anni ’90 proprio dalla Nato e si faccia dell’Ucraina un Paese neutrale, una sorta di nuova Svizzera nel cuore dell’Europa centro-orientale, salvandone l’integrità e l’indipendenza.