La contaminazione, i pregiudizi dell'Occidente, le radici forti nella musica del Mali. La scelta di non cantare in inglese. E il nuovo album con Damon Albarn, "London KO": «L’Africa ha così tanto da offrire al resto del mondo in termini di relazioni umane, ospitalità, generosità. Abbiamo un cuore grande»

Lunghi dreadlock, giacca rossa di pelle, sorriso e sguardo aperto, il volto e il corpo avvolti dai colori sgargianti dell'Africa. Che la proiettano nella galassia fiammeggiante dell'Afrofuturismo. Spazia dal pop all'elettronica Fatoumata Diawara, ma poi torna sempre a casa, alle sue radici, alla musica dalle mille sfumature da cui tutto è partito. Si è spinta più in là del solito con il nuovo album, “London KO”, prodotto con Damon Albarn. Nel titolo convivono la capitale britannica e quella del Mali, mondi non proprio contigui all'apparenza, il suo e quello del cantautore e polistrumentista britannico, icona degli anni Novanta con i suoi Blur e poi alle sonorità hip hop con i Gorillaz. Una sintesi riuscita che porta colori diversi, dall’afrobeat al jazz, pop, electro e persino hip hop. «Ho messo tutto il mio amore, la mia anima e il mio corpo nel processo creativo di questo album», dice la cantautrice, che domenica prossima, il 19 novembre, sarà protagonista insieme ad altri artisti del Gran Finale del Romaeuropa Festival, REF2023. Inaugurato il 6 settembre, la trentottesima edizione del festival ha proposto 138 appuntamenti e 300 repliche di spettacolo in più di due mesi di programmazione. Un flusso continuo di suoni per la giornata conclusiva del Festival: da Qudus Onikeku a Ballaké Sissoko e Lorenzo Bianchi Hoesch fino a Bombino, chitarrista e cantautore nigeriano di etnia tuareg, “la stella più luminosa del desert blues”. 

 

Fatoumata Diawara, il suo nuovo album, “London KO”, nasce dalla collaborazione con Damon Albarn,  che proviene da un universo musicale molto distante dal suo. Come è nata l’idea di lavorare insieme?
«Non è vero che i nostri sono mondi lontani. Avendo ideato il progetto “African Express”, Damon è molto vicino alla musica africana, all’epoca fu la nostra prima collaborazione. Anzi, direi che ormai lui è il mio “fratello musicale”: abbiamo lavorato insieme sui rispettivi progetti diverse volte, la nostra connessione dal punto di vista musicale è totale».

 

Il titolo del disco richiama il legame tra Londra e Bamako, capitale e città più popolosa del Mali, crocevia di culture e fucina da sempre di grandi talenti musicali. Sembra un inno al multiculturalismo, alla mescolanza, a una vita senza confini. Sono ancora valori importanti?
«Certo! Tutti dobbiamo aprirci a nuove idee, la diversità è un valore importante, possiamo imparare molto gli uni dagli altri se apriamo il cuore e la mente. “London KO” simboleggia tutto questo, è un inno all’apertura e alla contaminazione».

 

In Occidente abbiamo dell’Africa un’idea stereotipata, falsa. Quali sono i luoghi comuni più duri a morire?
«C’è una canzone in cui mi concentro su questo aspetto: “Nsera”, il primo singolo del nuovo album. L’Africa ha così tanto da offrire al resto del mondo in termini di relazioni umane, ospitalità, generosità, abbiamo un cuore grande. Per capire la gente dell’Africa, tuttavia, bisogna andarci, viaggiare, scoprire il nostro meraviglioso continente, la diversità, il cibo, le abitudini».

 

Arriverà un giorno un cui l’Africa sarà padrona del proprio destino?
«Spero davvero in un mondo migliore, dentro e fuori dal continente africano. Continuerò a mantenere alta la mia voce per denunciare le ingiustizie, anche per chi non ha voce. In nome della pace e dell’uguaglianza».

 

Nel corso degli anni lei ha deciso di continuare a cantare nella lingua del Mali. E in francese. Molte star internazionali, invece, hanno scelto l’inglese. Perché la scelta di conservare la lingua Bambara nei suoi testi?
«È stato un processo molto naturale, il Bambara è la lingua che mi viene in mente quando compongo, si lega a tutto ciò che ho imparato della música tradizionale, ma questo non vuol dire che non posso cantare in altre lingue».

 

L’Afrofuturismo è una corrente culturale sorta nella seconda metà del Novecento, con un preciso codice artistico. Attraverso la letteratura, la musica, le arti visive, ha ridefinito il concetto di “comunità afrodiscendente” attingendo fantascienza, realismo magico, afrocentrismo. Ne hanno fatto parte, tra gli altri, Octavia Butler, Jean-Michel Basquiat, Erykah Badu. Sente di far parte del movimento?
«Ma certo! Continuo a muovermi tra tradizione e modernità, spero venga apprezzato sia dal punto di vista musicale sia visivo. Ad esempio, nel videoclip della canzone “Nsera”, diretto dal regista francese Greg Ohrel e nel mix tratto da quel brano, i riferimenti all’Afrofuturismo sono molto evidenti. Come nel mio album precedente, “Fenfo”, quando ho lavorato con il fotografo etiope Aida Muluneh: la sessione fotografica e il videoclip della canzone “Nterini” riflettono fino in fondo il rapporto con questo movimento artistico».