Basta un giro anche nei Paesi di seconda fascia per trovare strutture talmente belle e accoglienti. Se invece si entra negli impianti italiani, con poche eccezioni, l'effetto è persino ripugnante

C'era una volta il campionato più bello del mondo in cui giocavano Maradona, Platini, Zico, Falcao, Careca, Van Basten, Gullit, Rijkaard e poi Ronaldo, Zidane, Batistuta, Ronaldinho, Shevchenko, senza parlare degli italiani da Baggio a Totti, da Baresi a Maldini, da Paolo Rossi a Del Piero. I giovanissimi tifosi di oggi una cosa così possono vederla solo alla Playstation, impostando la piattaforma sulle vecchie squadre. Ed anche gli stadi dell’epoca erano adeguati visto che oggi, a 30\40 anni di distanza, sono praticamente gli stessi.

 

Il calcio italiano perde centinaia di milioni a stagione, la Nazionale non si è qualificata negli ultimi due Mondiali e le strutture sportive sembrano monumenti archeologici. Il presidente Uefa Aleksander Čeferin, in occasione dell’assegnazione degli Europei 2032 ha stigmatizzato duramente l’Italia affermando che «il livello infrastrutturale, in confronto alla sua dimensione e al suo status, è poverissimo». Gli altri, Premier League in testa, hanno svoltato investendo sulle strutture e trasformando i club in vere industrie dell’intrattenimento e hanno attirato risorse straniere. Tutto ciò in poco tempo se si tiene conto che negli anni Ottanta il movimento inglese era allo sbando, fuori dalle competizioni europee e con molti club in amministrazione controllata.

 

I ricavi oggi non sono più neppure paragonabili: la Juventus è la squadra che fattura di più ma se giocasse in Premier sarebbe solo al settimo posto. Nessuna squadra italiana è nella classifica delle prime dieci e nelle prime 30 ci sono solo Juve, Milan e Inter. Anche solo partecipare al campionato inglese garantisce ricavi molto più alti: il Leeds, di proprietà italiana, in due anni ha quadruplicato il fatturato, arrivando a 223 milioni di euro nel 2022 (18° posto). Il tutto piazzandosi a metà classifica e quindi senza neppure i ricavi delle Coppe europee.

 

Il vantaggio competitivo deriva da una organizzazione industriale complessiva che impatta poi sui diritti televisivi e sulla valorizzazione del brand.

 

Il problema degli stadi è emblematico. Basta fare un giro anche nei Paesi di seconda fascia (come Portogallo, Belgio, Danimarca, Olanda, Svezia) per trovare strutture talmente belle ed accoglienti che, poi, entrare in uno stadio italiano (con pochissime eccezioni) è persino ripugnante. Qualcuno di noi andrebbe al cinema oggi in una di quelle vecchie sale degli anni Cinquanta con le sedie di legno rotte? E infatti anche gli incassi derivanti dal botteghino e da tutto quello che gravita intorno (dai servizi, ai centri commerciali, dagli sky box agli store del club) marcano ormai una distanza siderale. Si pensi che la Juve, che è l’unica che ha sfruttato bene la proprietà dell’Allianz, produce al riguardo ricavi pari comunque alla metà del Manchester United. E anche i diritti televisivi ne risentono, visto che parliamo appunto di uno spettacolo. Basta guardare le immagini per accorgersi quanto impattino sulle riprese le nostre strutture grigie e tristi. La Premier, solo di diritti, incassa oltre tre miliardi di euro l’anno, mentre l’Assemblea della Lega Serie A li ha appena assegnati fino al 2028/29, a Dazn e Sky per circa 900 milioni. Una cifra di base addirittura inferiore alla precedente, cui andranno aggiunte le quote di revenue sharing.

 

Tutto questo senza considerare i nuovi competitor arabi e statunitensi. In Arabia il calcio dei supercampioni ora serve soprattutto come vetrina, con i diritti del campionato ceduti a prezzi modici in tutto il mondo proprio per farsi conoscere. Il calcio, che ha cinque miliardi di interessati, è stato scelto come lo strumento principale del processo di affermazione della nuova identità saudita e panaraba. L’avvento sul calciomercato della scorsa estate ha già comportato effetti deflagranti, con ingaggi faraonici ai calciatori e cifre contenute ai club venditori messi sotto pressione. L’Arabia, a differenza della Cina, intende seriamente realizzare una delle principali leghe del calcio mondiale, grazie al sostegno finanziario del fondo sovrano che a giugno ha rilevato le quattro principali squadre nazionali. Uefa e Fifa, che sono associazioni private tra imprese con sede in Svizzera e che perseguono i propri interessi (pecunia non olet), stanno assecondando questi processi di globalizzazione, sponsorizzando l’ascesa dell’Arabia e degli Stati Uniti (dove si disputeranno i prossimi mondiali). Ciò anche perché la Corte di giustizia Ue si pronuncerà a breve sulla vicenda della Superlega e in particolare sulla compatibilità del monopolio sulle competizioni internazionali.

 

Cosa fare in questo quadro a tinte fosche? Da un lato occorre porre il tema delle infrastrutture come un’emergenza nazionale. Attenzione non è detto che il calcio lo meriti, ma se non lo merita meglio rinunciare subito a competere perché senza stadi è inutile continuare questo processo di morte lenta, in quanto sarebbe come dire: giochiamo senza il pallone. Dall’altro lato occorre andare in controtendenza visto che la Premier ricava molto ma spende di più e il debito delle squadre inglesi ammonta a 4,1 miliardi di sterline, con due terzi dei club in perdita strutturale.

 

Dobbiamo rendere quindi il business più sostenibile, cercando di ottenere risultati sportivi con decisioni coraggiose riguardo a un calcio giovane ed evoluto a costi contenuti (imponendo ad esempio dei salary cap). Insomma si deve ripartire da nuove basi: occorrerà qualche anno ma è l’unica strada per rivedere, almeno in parte, ciò che fu.