Nell’anno più caldo della storia e nella città ecoinsostenibile per eccellenza, grandi nazioni inquinanti e piccoli paesi inquinati sono separati su tutto. La nuova guerra in Medioriente peggiora un quadro già plumbeo. E l’Italia si presenta con una squadra di basso profilo

Incendi devastanti in Grecia, alluvioni catastrofiche in Libia e in Malawi. Negli Usa, paese leader dello sviluppo, l’agenzia governativa Ncei dichiara che, dall’inizio del 2023 al 10 ottobre, ci sono stati 24 disastri climatici in territorio federale con danni superiori a 1 miliardo di dollari per ogni evento. In Italia c’è stato l’uragano Ciaràn che ha colpito la Toscana giorni fa e il fiumiciattolo Seveso che ha allagato Milano: è l’esondazione numero 118 dal 1975, la ventesima dal 2010. E il 2023 diventerà l’anno più caldo a livello globale dalla metà dell’Ottocento, quando iniziarono le rilevazioni climatiche.

 

In questo quadro incompleto per motivi di spazio, la conferenza annuale sul clima Cop 28 inizia il 30 novembre a Dubai con scarse speranze di passi concreti verso l’obiettivo dell’accordo di Parigi 2015, quando si stabilì che l’aumento delle temperature planetarie non doveva superare i 2° Celsius grazie a una riduzione drastica delle emissioni e alla rivoluzione delle rinnovabili.

 

Le guerre certo non aiutano. Un anno e mezzo dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, uno dei paesi più inadempienti sul piano del clima, l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso ha aperto un nuovo fronte di guerra a Gaza, duemila chilometri a nordovest degli Emirati.

 

In attesa dei missili ecosostenibili, la nuova crisi mediorientale è una zavorra in più per il processo di difesa dal cambiamento climatico che aveva suscitato qualche vaga illusione alla Cop 26 di Glasgow. Cinque anni dopo Laudato si’, è tornato sul tema papa Francesco con l’esortazione apostolica Laudate deum, in larga parte dedicata all’emergenza climatica.

 

Ma il pontefice è tenuto alla virtù teologale della speranza. I governi invece nicchiano. Lo slogan occulto è: decarbonizza tu che a me viene da ridere. È così con i temi al centro del dibattito. Per esempio, con il global stocktake. Il calcolo complessivo delle emissioni planetarie dovrebbe essere sottoposto a decisioni politiche coerenti con la gravità della situazione. Eppure nelle dichiarazioni ufficiose di chi andrà alla conferenza di Dubai lo scetticismo è totale.

 

Il damage and loss fund, il fondo danni e perdite introdotto dalla Cop 27 di Sharm el Sheikh, è l’altro punto critico di Cop 28. Per semplificare, si tratta del risarcimento da parte dei paesi più sviluppati, dunque più inquinanti, versato alle nazioni più povere, più virtuose, come Marocco o Gambia, e più a rischio di subire le conseguenze dell’arricchimento altrui. Anche in questo caso non è aria.

 

Il primo motivo è economico. Secondo il recente Adaptation gap report dell’Unep, il programma ambientale dell’Onu, per tenere in piedi in modo accettabile il fondo ci vorrebbero fra 215 e 387 miliardi di dollari all’anno di qua al 2030. La somma andrebbe a carico dei venti paesi industrializzati e questo già crea problemi seri sia con l’India, che è di turno alla presidenza del G20 e non intende rinunciare al carbone, sia con la Cina, che si dichiara a mezza via fra arretratezza e sviluppo per non contribuire.

 

Non meno importante è il tema se tassare il contribuente comune oppure le aziende che inquinano di più, spesso a capitale statale Italia inclusa, o se magari costruire qualche altro alambicco politico-fiscale, sul genere dei crediti ambientali.

 

Intanto lo spartiacque ricchi-poveri resta a livelli di tracimazione. All’evento Onu di Bonn lo scorso 13 giugno, il diplomatico pakistano Nabeel Munir, copresidente del convegno, ha ricordato che nel 2022 le inondazioni hanno colpito 33 milioni di suoi concittadini con danni per 30 miliardi di dollari. «E io mi sento come se stessi guidando una classe di scuola elementare», ha redarguito i negoziatori più impegnati a litigare che ad ascoltare le indicazioni del segretario generale Onu, il portoghese Antònio Guterres, che considera il fondo danni e perdite «una questione basilare di giustizia climatica, di solidarietà e fiducia internazionali».

 

Gli effetti collaterali delle tensioni belliche smorzeranno anche le proteste ambientaliste a Dubai, annunciate con l'hashtag #BoycottCOP28UAE. Nella metropoli emiratina, ecoinsostenibile per eccellenza, le manifestazioni di piazza non sono bene accette anche in tempi meno agitati. «Sarà come a Sharm l’anno scorso», racconta un inviato italiano a Cop 27. «In Egitto fuori dalla blue zone della conferenza non volava una mosca. Alcuni sono stati rispediti a casa con il primo aereo. Ho visto un tizio con un tamburello e un pappagallo che esprimeva dissenso. L’hanno blindato in venti secondi».

 

Le critiche degli ambientalisti hanno colpito Sultan Ahmed al Jaber, scelto alla guida della Cop 28. Al Jaber è il ceo di Adnoc, colosso petrolifero degli Eau che ha appena proclamato di volere investire 150 miliardi di dollari per aumentare la produzione di barili. Greta Thunberg, che proprio durante la Cop 24 del 2018 a Katowice ha conquistato fama internazionale all’età di quindici anni, ha definito «completamente ridicola» la nomina del manager emiratino. Più versato nella metafora, l’attivista keniota Eric Njuguna ha dichiarato: «Una zanzara guida la lotta contro la malaria».

 

È una zanzara che succhia petrolio. Secondo la Banca mondiale, la crisi di Gaza potrebbe portare il prezzo del barile a 150 dollari, oltre il record di 147 stabilito nel 2008 in piena crisi finanziaria internazionale. Chi guadagna con le energie fossili avrà ancora minore interesse verso la transizione energetica. Di norma, si parla delle nazioni segnalate fra le peggiori dalle varie classifiche: Russia, Stati Uniti, Iran, Arabia Saudita, gli stessi Emirati.

 

Al Jaber è un fautore della transizione graduale. Non è il solo. All’europea Greta non sarà sfuggito che da ottobre il nuovo commissario Ue per l’azione climatica è l’olandese Wopke Hoestra, ex ministro delle finanze accusato di non avere credenziali nel settore ambientale e cittadino del paese delle serre. Solo da poco i Paesi Bassi si stanno risollevando nelle classifiche di chi lotta contro il surriscaldamento del pianeta. Nell’ultimo rapporto Ccpi (climate change performing index) l’Olanda sale di sei posti al tredicesimo di una lista che, in realtà, non assegna il podio perché nessuna nazione è considerata del tutto in regola.

 

L’Italia, che nel 2024 presiederà il G7 orfano della Russia, vegeta al ventinovesimo posto. Ne ha guadagnato uno dal trentesimo. In pratica, siamo la serie B del clima e il governo Meloni ha tutte le carte per retrocedere ancora grazie alle perle dello storico e climatologo no-laurea Matteo Salvini, ministro e vicepremier. «Quando vai sull’Adamello e sul Tonale», ha dichiarato la scorsa estate, «e vedi i ghiacciai che si ritirano anno dopo anno ti fermi a pensare. Poi studi la storia e vedi che sono cicli». Alla sua analisi approfondita il leader leghista ha aggiunto il fondamentale «è luglio, fa caldo». Sul fronte Fdi si registra il riduzionismo di Lucia Lo Palo, presidente dell’Arpa Lombardia, dopo l’esondazione del Seveso. «Il cambiamento climatico non è colpa dell’uomo», ha rivelato la manager regionale che non ha completato gli studi universitari in filosofia.

 

La nazionale del clima che parte per la Cop 28 è profondamente rinnovata. Il ministro di riferimento è il forzista Gilberto Pichetto Fratin, commercialista che per un breve periodo è stato assessore all’ambiente del comune di Biella, circa trent’anni fa. Pichetto si è commosso all’ultimo Giffoni film festival quando una studentessa ha rivelato ansia per il suo futuro tra i cataclismi.

 

Nulla di male nell’emotività ma al predecessore Roberto Cingolani, transumato in Leonardo, i tecnici riconoscevano un know-how specifico più solido. E mentre i ministeri degli esteri di Usa, Francia, Gran Bretagna rafforzano le unità dedicate alla crisi ambientale, l’Italia temporeggia. Il diplomatico Alessandro Modiano, inviato speciale per il clima nominato da Mario Draghi nel 2022, si è dimesso all’inizio del 2023. Dopo sette mesi di vuoto, in agosto è stato sostituito da Francesco Corvaro, docente associato di fisica tecnica industriale al Politecnico delle Marche.

 

Negli scorsi giorni Pichetto ha ribadito di volere triplicare le rinnovabili che, secondo stime di Terna, valgono poco più di 61 gigawatt in totale. Nel 2022 sono stati installati 3 gigawatt, con circa cinquecento progetti per il rinnovamento energetico bloccati dalla burocrazia. Nel 2023 sono previsti altri 6 gigawatt. È vero che il paragone, per dimensioni e modello politico, è impossibile ma nei primi nove mesi di quest’anno la Cina ne ha installati 172. In quanto ad abbandonare i nostri 8 gigawatt di carbone, il cosiddetto phaseout, la scadenza globale fissata a fine 2025 sarà un altro fallimento per le pressioni, oltre che dell’India, della Germania che ha abbandonato definitivamente il nucleare.

 

Di chimera in chimera, gli apocalittici crescono di numero anche fra le agenzie targate Onu. Secondo l’Ipcc, per stare nell’accordo di Parigi c’era un bonus di 500 miliardi di tonnellate di emissioni fino al 2030. Metà di questo tesoretto al contrario è stato già speso in attesa di un’invenzione tecnologica risolutiva. Nel linguaggio dei papi, di un miracolo.