Diritti
Le scuole clandestine in Afghanistan, dove le ragazze possono continuare a studiare
Il governo talebano ha precluso l’istruzione superiore alle studentesse. Ma alcuni docenti hanno aperto istituti segreti. Con rischi alti. Ecco il racconto di una di loro
Turbanti neri, tuniche bianche, M16 a tracolla e barbe assire; ecco i temuti uomini della polizia religiosa afgana impegnati a pattugliare le vie di Kabul. Il sole illumina le montagne dell’Hindukush che circondano la capitale, un bambino caracolla tra i veicoli vendendo bandiere e spille con i simboli del potere talebano e intanto i custodi della morale, immersi nel cuore dell’Emirato e nel traffico cittadino, zelanti, fanno rispettare i dettami di una fede tautologica che non ammette concessioni e repliche. I rigoristi sunniti rivolgono le loro attenzioni soprattutto alle donne: al posto di blocco fermano gli autobus, ispezionano i veicoli e poi, salmodiando sure e dispensando minacce, si accertano che le passeggere siano coperte dai burqa o dagli hijab e che siano accompagnate dal marito o dal padre. Incutono timore, lo sanno, ne vanno fieri e ostentano la loro devozione all’irrazionale imponendo alle donne di viaggiare nei bagagliai dei taxi, imbrattando le immagini dei volti femminili sulle vetrine dei negozi e affiggendo manifesti che recitano: «Una donna che non indossa il burqa si comporta come un animale!».
La polizia religiosa risponde al più discusso dicastero dell’Emirato islamico, il ministero della Prevenzione del Vizio e Promozione della Virtù guidato da Mohammad Khalid Hanafi, rappresentante della corrente più ortodossa dei talebani e sempre più influente nel governo. L’esecutivo dell’Amir al-Mu’minin («comandante dei credenti»), Haibatullah Akhundzada, infatti, a dicembre, tramite due editti, ha svelato al mondo il suo vero volto: quello di una dittatura teocratica nella quale i clerici più integralisti hanno conquistato i gangli vitali dell’amministrazione e hanno imposto l’applicazione radicale della sharia introducendo leggi dai forti richiami a quelle del governo talebano degli anni ’90.
Il 6 dicembre, nello stadio di Farah, si è svolta la prima esecuzione pubblica che ha mostrato all’opinione interna e internazionale il ritorno della «giustizia talebana». E poi, nelle ultime settimane, un ukase emesso dal ministero dell’Istruzione superiore ha bandito le donne dalle università, portando a termine quel processo di istituzionalizzazione di un regime di apartheid di genere in cui, in meno di 20 mesi, le donne afgane sono state allontanate dalle scuole superiori, licenziate dai posti di lavoro, estromesse dai ruoli amministrativi, espulse dalle università, impossibilitate a fare sport e comprare contraccettivi. E persino private del diritto alla salute, dal momento che, da inizio gennaio, non possono più essere visitate da medici se questi sono uomini. Peccato, però, che in Afghanistan alle donne sia vietato studiare medicina.
L’appuntamento è stato concordato in un quartiere periferico della capitale. Intorno, tra case di terriccio e vette brulle, donne velate camminano tra i banchi di un piccolo mercato, un pastore guida un gregge di pecore, bambini spingono biciclette e giocano con trottole di legno, in lontananza si leva il suono del carillon di un venditore di gelati. A un primo sguardo, tutto questo ha i connotati di un lento e pervicace ritorno alla vita, di un dopoguerra genuino seppur povero. Ma in Afghanistan, oggi, il Paese reale si trova al di là dello sguardo, nei vissuti dei singoli che, dal 15 agosto 2021, trascorrono i propri giorni prigionieri di un’eresia elevata a imperativo di condotta.
«Vi abbiamo fatto aspettare perché dovevamo essere sicuri che nessuno vi avesse seguito e che non ci fossero talebani qui intorno». Laleh, nome di fantasia per ragioni di sicurezza, è un’ex studentessa universitaria che fino a pochi mesi fa amava la letteratura, viaggiava attraverso l’Afghanistan raccogliendo storie su un taccuino e immaginava un futuro da reporter. Ora però quei giorni e quelle speranze, come dopo un incendio in cui tutto è andato a fuoco, sono solo sogni fattisi cenere all’alba della realtà.
«Da quando non ho più un futuro, da quando questo mi è stato negato, ho deciso di insegnare in una scuola clandestina e lottare perché le ragazze afgane possano avere un avvenire. Non come me che non sono più un essere umano: non posso viaggiare, non posso studiare, non sono più libera di dire ciò che penso e neppure di vestirmi come voglio: e perché? Perché sono una donna».
L’edificio adibito a scuola è immerso nel buio, delle pesanti tende alle finestre impediscono ai curiosi di spiare ciò che avviene nella struttura e due ragazzi sull’uscio controllano i movimenti dei passanti. All’interno, in un ampio salone, decine di alunne, dai 12 ai 18 anni, stanno partecipando a una lezione sul valore della diaristica come genere letterario e come fonte storiografica. Dopo che il nuovo governo ha precluso l’istruzione alle studentesse, diversi docenti nel Paese hanno aperto degli istituti segreti per permettere alle allieve di continuare a ricevere un’educazione scolastica. I rischi però sono altissimi. «Sono consapevole dei pericoli che sto correndo. Se i talebani dovessero fare irruzione ora, probabilmente mi arresterebbero. Però occorre farlo, perché la cultura e la conoscenza sono la luce per orientarsi nelle tenebre dell’Afghanistan di oggi».
La dolcezza dei lineamenti, la pacatezza della voce e l’accortezza nei modi, in apparenza, contraddicono la tenacia e la determinazione delle parole della docente. «Noi insegnanti crediamo in quello che stiamo facendo, siamo certi che i talebani se ne andranno e che il loro governo cadrà. Quando ciò avverrà, le ragazze che voi vedete qui ora saranno le donne che guideranno il nostro Paese domani». Una domanda in merito alla discussa possibilità che il burqa divenga obbligatorio, però, spaventa la giovane e fa vacillare il suo ostinato avvenirismo. Accetterebbe mai di indossarlo? Laleh s’interrompe e, dopo una pausa di smarrimento e macerazione interiore, scoppia in un pianto esasperato e inconsolabile.
In Afghanistan, oggi, tra le tante costrizioni introdotte dal governo, c’è anche quella per le giornaliste locali di coprirsi il volto quando conducono un telegiornale. La redazione dell’emittente Tolo news si trova nel centro di Kabul. Uomini armati presidiano l’ingresso degli studi televisivi e all’interno decine di cronisti preparano il notiziario. «Incredibile, vero? La mascherina che ho indossato per proteggermi dal Covid negli ultimi anni adesso devo metterla per nascondere al mondo la mia persona!». Madina Norwat, 23 anni, è una delle reporter di punta del canale e prosegue raccontando: «La maschera uccide la nostra personalità, la nostra voce, non abbiamo più un volto, non siamo più persone. Inoltre i talebani hanno imposto la censura e dettano cosa possiamo dire e cosa no». La giornalista si prepara alla messa in onda, si sistema il velo, indossa la mascherina, ma prima di sedersi di fronte alla telecamera, compiendo un gesto di resistenza all’omologazione dei talebani, si trucca gli occhi con cura. «Se non fosse che oggi l’Afghanistan è ridotto alla fame e io sono l’unica che porta uno stipendio a casa, non accetterei mai di coprirmi in questo modo».
Il Paese asiatico sta affrontando una crisi economica drammatica. Secondo le stime del World Food Programme, 22,8 milioni di persone, di cui 14 milioni di bambini, sono affetti da malnutrizione acuta; quasi 9 milioni sono in uno stato di emergenza alimentare. E l’editto emesso dal governo, che vieta alle Ong straniere d’impiegare personale femminile e che ha già provocato la fuga dal Paese delle più importanti organizzazioni umanitarie, rischia di trascinare la nazione in una catastrofe ancora più atroce. Che vede nelle donne le prime vittime.
Il sole sta tramontando a Kabul, i fedeli escono dalle moschee dopo l’ultima preghiera e numerose donne, a gruppi si dirigono nel distretto di Kotal Khair Khana. Dove, di fronte alla panetteria del quartiere, ce ne sono già sedute altre centinaia in attesa di ricevere un tozzo di pane. Il titolare del negozio, da quando è iniziata la crisi, grazie alle offerte dei residenti, ogni sera ne distribuisce alle madri indigenti. Infinite mani si levano da sotto i burqa per afferrare del naan e congiungersi poi nell’universale atto di gratitudine. Ma dopo alcuni minuti sopraggiunge anche un militare talebano. Fucile automatico in spalla, osserva le donne ai suoi piedi: un silenzio saturo di paura cala sui presenti e una madre abbassa la rete del burqa sul volto della figlia. Una bambina d’oggi nell’Afghanistan dei talebani.