Via libera del Cdm al ddl per contrastare femminicidi e violenze domestiche. Ma come sottolineano le associazioni, il limite del pacchetto di norme “preventive” è che non cerca di trovare una soluzione culturale più ampia

Annunciato mesi fa, il governo di Giorgia Meloni ha approvato un pacchetto di norme sul contrasto alla violenza sulle donne e alla violenza domestica, nato dalla collaborazione di tre dicasteri, Giustizia, Interno e Pari Opportunità.

Dopo il femminicidio di Giulia Tramontano il tema ha richiesto un'accelerazione e una risposta immediata che però è andata ad agire sulle norme esistenti inasprendole, senza valutare un piano strutturale, e non emergenziale, come da tempo chiedono invece associazioni femministe e centri antiviolenza: «una risposta ad un’emergenza che cavalca l’onda emotiva dell’ultimo femminicidio, un insieme di misure volte a intervenire senza affrontare nelle sue radici il fenomeno».

Il disegno di legge, che comunque dovrà passare dalle Camere per l’approvazione e che potrebbe quindi subire delle modifiche, interviene sul Codice Rosso contro la violenza sulle donne approvato nel 2019 e ricalca quasi totalmente quello proposto nella scorsa legislatura dalle ministre Bonetti, Lamorgese e Cartabia (anche se con pene maggiori).

Innanzitutto si estendono i casi per cui è applicabile il cosiddetto “ammonimento” nei confronti del violento, quella che la ministra alle Pari Opportunità Eugenia Roccella definisce "il cartellino giallo dell'uomo violento". L’ammonimento è una misura di prevenzione emessa dal questore per tutelare le vittime di violenza domestica, cyberbullismo o atti persecutori (stalking), che con il ddl si allarga anche a quelli definiti “reati spia” (percosse, lesione personale, violenza sessuale, violenza privata, minaccia grave, atti persecutori, revenge porn, violazione di domicilio, danneggiamento). Si prevede, inoltre, l’aggravamento di pena quando i reati sono commessi da un soggetto già ammonito, anche se la vittima è diversa da quella che ha effettuato la segnalazione. E con la reiterazione, la querela partirà d’ufficio, senza la denuncia della vittima.

Nel pacchetto poi si parla di velocizzare i processi che riguardano la violenza sulle donne, anche se non è chiaro in che modo, e del potenziamento delle misure di prevenzione, in particolare rispetto all’uso del braccialetto elettronico, che ora prevede il consenso da parte del violento, ma che con il ddl, in caso di consenso negato, l’uso del dispositivo non potrà essere inferiore ai due anni.

Inoltre sarà obbligatorio (e non più facoltativo) per il tribunale imporre agli indiziati il divieto di avvicinamento alle vittime - non meno di 500 metri - e ai luoghi da esse frequentati. In caso di violazione sarà possibile imporre la detenzione in carcere (da uno a cinque anni), prima prevista solo in caso di violazione dei domiciliari, e l’arresto anche fuori dai casi di flagranza e in “flagranza differita” (nei casi in cui il reato sia dimostrabile attraverso video, foto o altro genere di documentazioni, e non più di 48 ore dopo).

«Ci preoccupano, e non poco, il rafforzamento dell’ammonimento e la convocazione in questura anche senza bisogno di denuncia da parte della donna, la prima misura perché espone ancor di più la donna al pericolo, la seconda perché non tiene conto della volontà della donna», commenta in una nota stampa Dire, la rete nazionale antiviolenza che gestisce oltre 110 Centri antiviolenza e più di 60 case rifugio. Infatti, come dimostra la casistica, i pericoli per le donne aumentano di molto dopo denunce e ammonimenti e queste di fatto sono senza sostegno e costrette a vivere con l’uomo denunciato.

Da tempo i centri antiviolenza lamentano la mancanza di fondi, bloccati e senza un piano di distribuzione, utili per mantenere la continuità degli interventi e non lasciare le donne sole proprio quando la violenza potrebbe aumentare.

«Le donne vivono sui loro corpi anche la vittimizzazione secondaria che le obbliga ad affidi condivisi dei figli con mariti violenti», sottolinea Dire, un argomento totalmente ignorato. Molte associazioni femministe poi lamentano, dalla loro introduzione nel 2019, l’uso sempre maggiore dei corsi per uomini maltrattanti per ottenere la sospensione della pena: nel pacchetto approvato l’intenzione è quella di una valutazione più stringente da parte del giudice. Non solo la frequentazione dei corsi, ma anche un comprovato “esito favorevole”.

Il limite principale del pacchetto di norme definite “preventive”, ma che, come sottolineano le associazioni, di preventivo hanno poco, visto che si interviene a violenza avvenuta, è che non cerca di trovare una soluzione culturale più ampia. Nonostante anche Roccella sottolinei questo aspetto, «tutto questo non basta se non viene accompagnato da un cambiamento culturale. Pensiamo all'ultimo caso, quello di Giulia, che nessuna legge avrebbe potuto salvare», ha detto la ministra, di formazione delle forze dell’ordine e della magistratura al riconoscimento e alla presa in carico della violenza, spesso derubricata a conflitto tra parti, non si parla.

E neppure di una proposta di legge sull’educazione sessuale e di genere e all’affettività, da sempre per la destra un argomento tabù.

Eppure i disegni di legge negli anni non sono mancati: nella scorsa legislatura si contano quelli di Stefania Ascari (M5s) e Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana), anche se la media è di una proposta l’anno. Nelle scuole d’Italia non esiste infatti una materia dedicata, come avviene invece in altri paesi, alcuni dei quali l’hanno introdotta da tempo (Francia nel 1998, Danimarca nel 1970, Germania nel 1968). I numerosi tentativi partono da lontano, la prima proposta è del 1975, a bloccarli si sono trovati sempre i partiti di destra, sostenuti della Chiesa, spaventati dalla messa in discussione dei ruoli di genere e, più di recente, dall’introduzione delle tematiche Lgbt. A violenza, la risposta è stata sempre, e soltanto, l’inasprimento delle pene.