I dialoghi dell’Espresso
Maurizio Landini: «Viva i giovani che non accettano settecento euro al mese. Dire no è un modo di fare sindacato»
«Oggi è più difficile organizzare gli scioperi generali. In passato le forze politiche pensavano che fosse giusto che ci fossero i diritti. Nel 1970 il centro, la destra e la sinistra votavano lo statuto dei diritti dei lavoratori; oggi il centro, la destra e la sinistra lo hanno cancellato». Il leader Cgil si racconta a L’Espresso
L’anticamera è breve, una decina di minuti. «Il segretario è in riunione, ma arriva subito». Intanto un caffè accompagnato da due chiacchiere sugli anni che furono e vecchi ricordi condivisi. Appena il tempo di fare l’immancabile domanda che sa un po’ di naftalina: «Fra di voi vi chiamate ancora compagni?». «Sì, nelle riunioni, ma anche amici», risponde il funzionario. Un attimo e Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, compare nel corridoio. Sulla faccia ha un sorriso disteso, tende la mano. Presentazioni di rito: «Diamoci del tu». La sua stanza è semplice, come te la immagineresti: una scrivania, un tavolo, un set di poltrone in alluminio e pelle nera dalla forma quadrangolare. Comode. Un tavolinetto. Landini si siede. I suoi si appostano sul tavolo poco distante ad ascoltare.
Si comincia dal principio: come hai scoperto il sindacato? «Quando ho cominciato a lavorare a 16 anni da apprendista, perché in famiglia di soldi ne entravano pochi, mi hanno contattato quelli che lavoravano lì. Mi hanno chiesto di iscrivermi alla Fiom-Cgil. L’ho fatto, è stata una cosa normale».
Il giovane Landini però ha cominciato con il freno a mano tirato. Alle prime assemblee non interveniva, ma ascoltava con grande attenzione. Poi però la tua vera anima è venuta fuori, no?
«Non ero ancora delegato. Facevo il saldatore in Ceti, una cooperativa che produceva impianti termoidraulici con 250 dipendenti. Lavoravo nei cantieri anche d’inverno e quindi faceva freddo. Quando era freddo volevamo lavorare meno e abbiamo aperto una vertenza. Il presidente della cooperativa ci ha detto che capiva il problema, però la cooperativa era in una situazione difficile. Lo interruppi con il mio primo intervento: guarda che io in tasca ho la tua stessa tessera di partito, però ho freddo lo stesso. Quindi risolviamola questa cosa. Arrivammo ad un accordo che d’inverno prevedeva sette ore di lavoro ma otto pagate. Inizio così la mia militanza nel sindacato: prima delegato sindacale poi l’esperienza alla categoria, a Reggio Emilia».
In ufficio? Uno come te, dai. E poi da giovane.
«In effetti i primi mesi non vedevo i risultati del mio lavoro. Cioè, la sensazione era: qui si fanno delle chiacchiere, ma non si produce nulla. Poi però ho cominciato a seguire le aziende in quattro-cinque comuni del territorio e ho avuto la possibilità di conoscere le persone, convocare delle assemblee, sentire che problemi avevano e cercare di risolverli tramite trattative ed accordi con le imprese. Quindi è iniziata un’esperienza importante che mi ha permesso di crescere come persona».
Lasciamo l’Amarcord. Oggi è tutta un’altra musica. Diciamo la verità, se le cose nel mondo del lavoro vanno come vanno, un po’ è anche colpa vostra.
«Certo che ci sono responsabilità anche dei sindacati. Non si può però non tenere conto di quanto è successo in questi anni. Le leggi sulla precarietà non le ha fatte il sindacato ma il Parlamento e sono quelle leggi che hanno prodotto dei veri e propri disastri sociali. Comunque, il sindacato deve cambiare, perché delle responsabilità le ha. Da tempo c’è in corso un attacco al diritto che le persone possano negoziare la loro condizione. Di fronte a questo processo, è fuori dubbio che dobbiamo cambiare. Non dobbiamo limitarci a rappresentare solo una parte del mondo del lavoro. Dobbiamo contrastare la precarietà e rappresentare tutte le forme di lavoro. Un nuovo Statuto dei lavoratori deve mettere i diritti in capo alla persona che lavora: una partita Iva, un lavoratore autonomo così come un lavoratore dipendente devono avere gli stessi diritti e devono avere le stesse tutele».
Bei tempi quando si organizzava un bello sciopero generale e si dava una spallata al governo.
«Oggi è più difficile organizzare gli scioperi generali. In passato le forze politiche pensavano che fosse giusto che ci fossero i diritti. Nel 1970 il centro, la destra e la sinistra votavano lo statuto dei diritti dei lavoratori; oggi il centro, la destra e la sinistra hanno cancellato lo statuto dei diritti dei lavoratori. Abbiamo più di centomila giovani che ogni anno vanno via dal nostro Paese, perché qui non sono pagati o sono pagati poco, sono sfruttati o non si realizzano. Abbiamo i salari più bassi d’Europa e un livello di precarietà che non c’è in nessun altro Paese. Questa situazione non ha favorito quegli imprenditori che intendono investire sull’innovazione e sulla qualità ma quelli che vogliono fare i furbi, non pagando le tasse, sfruttando le persone, esternalizzando diverse attività e usando la catena degli appalti e dei subappalti».
Insomma, siete vittime? Non ci posso credere. In fondo anche il sindacato fa parte della cultura della sinistra.
«Noi siamo un sindacato, come ci ha insegnato Bruno Trentin, autonomo, di progetto, democratico, pluralista e che vuole rappresentare tutti i lavoratori e le lavoratrici. In questi anni c’è stata la rottura del rapporto tra la sinistra e il mondo del lavoro. Quando è andata al governo non ha migliorato la condizione di lavoro delle persone. È con la legge Treu del 1997 che si apre alla flessibilità e si avvia un ciclo che porta a Berlusconi nel 2001, al Jobs Act di Renzi nel 2016. E l’attuale governo amplia la precarietà liberalizzando i contratti a termine e reintroducendo i voucher. Se la sinistra e la politica tutta vogliono recuperare la cesura che si è prodotta in questi anni, devono tornare a rappresentare la cultura del lavoro e gli interessi materiali delle lavoratrici e dei lavoratori».
Ormai tanti giovani rifiutano un’occupazione sottopagata. E milioni di persone sono povere pur avendo un lavoro. Qui il segretario butta la palla in tribuna.
«Sai cosa ti dico? Per fortuna c’è una parte di giovani che non accetta più settecento, mille euro per determinati lavori. Non li accettano perché si sentono sfruttati. È anche questo un modo di fare sindacato. Avere il coraggio di dire no. E quelli che se ne vanno all’estero non tornano perché là li pagano meglio e perché là li riconoscono come capaci e intelligenti. Ora qua c’è una domanda per il sindacato e la politica: al centro deve tornare la persona o deve rimanere il libero mercato? Se vuoi dare un futuro, il problema è se tu rappresenti o meno le persone che lavorano e se la solidarietà, la giustizia sociale, l’eguaglianza sono elementi fondamentali su cui costruire un nuovo e diverso modello sociale».
A proposito di modelli sociali, ci sarebbe quello tedesco con i lavoratori che partecipano alla vita delle aziende.
«I modelli non vanno presi a pezzi, altrimenti il ragionamento non funziona», sostiene convinto Landini. «Per prima cosa in Germania non ci sono tre sindacati, ce n’è uno. E già questa è una differenza. Secondo, la Germania, subito dopo la guerra, ha fatto una legge per cui i lavoratori hanno diritto, non a essere nei consigli d’amministrazione, ma a partecipare e a eleggere dei loro rappresentanti nei consigli di sorveglianza e quindi essere coinvolti in un determinato processo. Terzo, noi abbiamo una dimensione di piccole imprese, la Germania ha diverse grandi imprese. Noi abbiamo favorito la piccola impresa senza però fare rete, non abbiamo fatto nulla per farle crescere. E questo è diventato un elemento di debolezza. Siamo anche bravi a fare i subfornitori per imprese più grandi ma così non si determina né il progetto, né il prodotto finale e si è subalterni a scelte fatte altrove. Quindi più che discutere se è utile o meno la partecipazione dei lavoratori nei consigli di amministrazione, dobbiamo decidere quale modello industriale vogliamo perseguire».
Sì, però il modello industriale è difficile da ripensare adesso, con le piccole e medie imprese che fanno il 95% del Pil.
«Così però non andiamo più da nessuna parte», dice secco il segretario.
Dipende. Il sistema delle Pmi funziona, è il modello del made in Italy che tanto piace nel mondo. Come facciamo a trasformare migliaia e migliaia di piccole imprese familiari in grandi gruppi industriali? È il meccanismo della concentrazione che rende tutti uguali e competitivi per più quantità e meno per qualità.
«Innanzitutto, cominciando a fare sistema, perché altrimenti la piccola impresa lasciata a sé stessa, rischia di chiudere. Tanto più a fronte dei cambiamenti epocali in corso nelle tecnologie, nei sistemi produttivi, nei prodotti. Cambiamenti che non possono essere lasciati al mercato né alle convenienze delle grandi multinazionali. C’è bisogno, proprio per fare sistema, di investimenti pubblici nella ricerca, nella formazione, nell’innovazione. Non si può competere sui costi ma sulla qualità delle produzioni e del lavoro».
Credo che prima dell’intervento pubblico in economia sia necessario rappresentare i giovani e i loro bisogni. Però non mi sembra che i giovani si avvicinino tantissimo al sindacato.
«Sì, secondo me il problema del rapporto con le nuove generazioni è il primo problema che ha il sindacato oggi, almeno parlo per la Cgil. E proprio per questa ragione bisogna saperli ascoltare e aprirci a una loro presenza, a una loro partecipazione».
Però i bisogni dei giovani di oggi non sono quelli dei canoni del sindacato: anche il lavoro è cambiato, c’è più specializzazione, più tecnologia, più precarietà. Evidentemente c’è bisogno di nuove forme organizzative anche per il sindacato.
«Sicuramente. Sono cambiati contenuti e forme del lavoro, ci sono le nuove tecnologie, e io non credo che cancellino le persone. Ma la tecnologia non è neutra. Dipende chi la progetta, chi la controlla e chi ne decide uso e finalità. Bisogna contrastare la precarietà e investire sull’intelligenza delle lavoratrici e dei lavoratori, renderli protagonisti dei cambiamenti, dare loro nuovi strumenti di contrattazione e partecipazione. È questo il nuovo fronte di lotta del sindacato».
Ma anche un salario decente. Il salario minimo in Italia non si fa, mentre si fa in tutta Europa. Come mai?
«Dobbiamo arrivare anche al salario minimo stabilito per legge, cioè una soglia sotto la quale non si può andare. Però contemporaneamente bisogna anche salvaguardare la contrattazione collettiva e i contratti nazionali di lavoro. Ci vogliono tutte e due le cose, perché in Italia non solo non abbiamo il salario minimo, ma sono aumentati i contratti pirata firmati da sindacati e associazioni d’impresa che non rappresentano nessuno. Bisogna fare una legge sulla rappresentanza che dia valore ai contratti nazionali firmati da sindacati e associazioni rappresentative e fare in modo che i lavoratori a cui vengono applicati possano votare e approvarli. A quel punto lì non avremo solo un salario minimo, ma anche una serie di diritti garantiti a tutti: il diritto alle ferie, alla copertura di malattia e infortuni, alla maternità, ad avere determinati orari, alle maggiorazioni pagate per gli straordinari o i turni».
Mi sembra che dietro a questa posizione ci sia però una grande paura di perdere potere di contrattazione.
«Paura di che cosa e di quale potere parliamo? Ci sono contratti che sono anni che non si rinnovano, ci sono 5-6 milioni di persone che non raggiungono i 10 mila euro lordi all’anno, cioè poveri pur lavorando, privi di tutele e quindi ricattabili. L’articolo 18 l’hanno già tolto, il sistema pensionistico per i giovani non c’è. Quindi cosa c’è da perdere? Io sto chiedendo di applicare gli articoli della Costituzione per salari giusti e diritti sociali, per il riconoscimento del valore generale dei contratti e della rappresentanza sindacale anche per contrastare la diffusione dei contratti pirata. L’attuazione della Costituzione per trasformare il nostro Paese».
Citi sempre il Jobs Act. Ti ricordi quando Renzi ti diceva che volevi mettere i gettoni nel cellulare?
«Noi giudichiamo i governi per quello che fanno. Lo sciopero generale contro il governo Renzi l’abbiamo proclamato per contrastare il Jobs Act. Oggi è sotto gli occhi di tutti che quella legge non ha creato nuovi posti di lavoro, ma ha allargato solo la precarietà. E il partito di cui Renzi era segretario ha perso voti anche per le leggi sbagliate che ha fatto, tant’è che una parte consistente del mondo del lavoro non si è più sentita rappresentata. Se in un Paese come il nostro il 50% dei cittadini non va più a votare vuole dire che c’è una crisi della democrazia che è anche crisi della rappresentanza. Penso che in realtà una delle cose che andrebbero cambiate sia la legge elettorale. L’attuale governo invece vuole cambiare la Costituzione con l’autonomia differenziata e il premierato. Così si divide ancora di più il Paese e si indebolisce la partecipazione democratica. Io penso invece che cambiare vuole dire attuare la Costituzione. Per queste ragioni si è tenuta a Roma, il 24 giugno scorso, una grande manifestazione nazionale per la difesa e il rilancio della sanità pubblica e per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. E saremo nuovamente in piazza il prossimo 30 settembre a Roma, ancora una volta con tante associazioni laiche e cattoliche, per il lavoro contro la precarietà, per un fisco giusto e progressivo, per il diritto alla conoscenza ed alla formazione contro l’autonomia differenziata e lo stravolgimento della nostra Repubblica parlamentare».
Ritornando alla legge elettorale, quindi fine del maggioritario e ritorno al proporzionale? Non è un passo indietro, un ritorno alle vecchie liturgie dei partiti?
«Penso che i cittadini devono tornare ad eleggere loro chi va in Parlamento e chi è in Parlamento non deve rispondere al capo di turno che l’ha nominato, ma deve rispondere a quei cittadini che l’hanno votato. È questo nesso che si è interrotto in questi anni: hanno cambiato tante volte la legge elettorale pensando più a un tornaconto di parte che al diritto dei cittadini di votare».
A questo punto non ti rimane che entrare in politica direttamente.
«Credo che sia da quando sono diventato segretario della Fiom nel 2010, che per qualsiasi cosa che ho detto o fatto, tutti pensavano che dietro ci fosse il mio ingresso in politica. Ho sempre detto che non mi interessava e che la mia vita e il mio impegno erano nel sindacato e mi sembra di averlo dimostrato nei fatti. Voglio fare il mio dovere e completare il mio mandato. Lo dico in modo molto chiaro, consapevole che, quando faccio il sindacalista faccio anche politica, non perché mi sostituisco ai partiti, ma perché il termine nobile del fare politica vuol dire che nel momento in cui io mi occupo dei problemi delle persone che lavorano, indico assieme a loro anche un’idea di futuro per questo Paese».