La mala scuola
La scuola riapre: ma tra docenti precari e strutture che crollano, il sistema è a pezzi
Gli edifici sono fatiscenti, il personale manca, i prof sono sottopagati o con contratti a termine. E la logica dell'azienda che si cerca sempre più di introdurre non funziona: «Dobbiamo formare menti pensanti. Non asservite a un mercato del lavoro guasto»
Alla parete il nuovo monitor touch. Sui banchi gli iPad pronti per gli studenti che tornano a scuola dopo le vacanze. Ma in fondo all’aula, abbandonato in un angolo, c’è ancora il secchio. Che serve quando piove troppo. «Mi è capitato più volte di fare lezione così: con uno schermo da 3mila euro appeso al muro e l’acqua che cade dal controsoffitto», spiega Monica Capo, maestra di scuola primaria a Frattamaggiore, comune di poco meno di 30mila abitanti nella periferia nord di Napoli. Area nota per l’alto tasso di dispersione scolastica, che supera la media nazionale del 11,5 per cento, e l’elevato numero di scuole private a cui si rivolgono studenti da tutta Italia per ottenere il diploma.
«Inizio l’anno con un macigno nel cuore. Il Pnrr doveva contribuire a risolvere i problemi della scuola, invece non sta succedendo. Arrivano fondi che finanziano progetti che però non sempre rispondono ai bisogni reali del sistema scolastico». Così il personale resta insufficiente e precario. I salari poco dignitosi. E gli edifici fatiscenti: «La scuola che riapre a settembre è inagibile», ricorda con amarezza Capo che fa anche parte dell’associazione Agorà33, che ha l’ambizione di fare della scuola un luogo di cultura e crescita umana: «Un edificio su due non ha la certificazione. Ogni giorno studenti, docenti e tutto il personale che entra in classe mette la propria vita in pericolo».
A dimostrarlo anche i dati. Secondo il report del 2022 di Cittadinanzattiva, onlus che promuove partecipazione e diritti dei cittadini, su oltre 40mila scuole statali, più di 23mila non sono in possesso del certificato di agibilità, documento che attesta la sussistenza delle condizioni minime di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico delle strutture. «I dati son gli stessi dell’anno scorso perché il ministero non ha aggiornato l’anagrafe dell’edilizia scolastica. E anche se è vero che la situazione non può cambiare radicalmente in un anno, la mancanza di trasparenza impedisce ai cittadini di comprendere a che stadio siano gli interventi», aggiunge Adriana Bizzarri, coordinatrice nazionale Scuola, che anticipa a L’Espresso i risultati del prossimo report di Cittadinanzattiva, che verrà presentato il 23 settembre a Bologna, durante il Festival della partecipazione.
Ci sono stati 61 crolli nelle scuole e negli atenei italiani tra settembre 2022 e agosto 2023. «Il numero più alto degli ultimi 6 anni. Che ha provocato il ferimento di sei studenti, un’insegnante, una collaboratrice scolastica, danni agli ambienti, agli arredi e interruzione della didattica. Tragedie sfiorate che denotano la carenza di manutenzione che andrebbe garantita tutti i giorni. E che dimostrano la vetustà degli edifici scolastici. Più della metà ha oltre 50 anni. Così, in aggiunta alle nuove strutture da costruire con il Pnrr bisogna preoccuparsi della messa in sicurezza dell’esistente. Su cui è necessario intervenire anche a prescindere da quanto prevede il Piano. Pensare di non finanziare i fondi per l’edilizia scolastica per i prossimi 5 anni perché c’è il Pnrr, ad esempio, sarebbe la cosa più sbagliata», conclude Bizzarri.
Quali siano le urgenze della scuola pubblica e quali dovrebbero essere le strategie di rilancio sui cui investire risorse se lo sono chiesti anche i genitori degli studenti del liceo Pilo Albertelli di Roma. Insieme con i docenti hanno bocciato due progetti previsti dal piano Scuola 4.0, del valore di circa 300mila euro. «Avrebbero snaturato la didattica», dicono. «Per noi le urgenze sono le classi pollaio, lo stato dell’edilizia scolastica, la mancanza cronica di personale docente e Ata che rendono impossibile la didattica e i percorsi di inclusione. E sono solo le priorità, per non parlare del processo di aziendalizzazione», ovvero il tentativo di piegare l’istituzione culturale alle logiche della tenuta dei conti e del profitto. Un obiettivo verso cui si dirige anche la riforma degli istituti tecnici e professionali per “una nuova filiera formativa tecnologica” promossa dal ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, con l’obiettivo di «connettere la scuola al mondo del lavoro». Che, però, rischia di spingere gli studenti a sottostare alle richieste di un mercato dell’occupazione che funziona male, invece di formarli per affrontarlo con consapevolezza e capire come migliorarlo.
Che la logica che regolamenta l'istruzione stia diventando sempre più simile a quella che vige nelle imprese, e che questo sia dannoso per gli studenti, lo pensa anche Rosa, insegnante di sostegno di Bari: «La scuola è diventata un ente economico a tutti gli effetti. Basta assistere a un collegio docenti per capirlo: si parla di tutto tranne che dei ragazzi. Perché alla base dell’interesse del dirigente c’è che l’utenza non diminuisca. Così, ogni istituto fa progetti per ricevere finanziamenti e per acquisire visibilità, importante per attirare iscritti, dai quali dipendono ulteriori finanziamenti e l’assegnazione del numero di docenti di diritto: una corsa continua per non scomparire o venire accorpati». Rosa conosce il mondo della scuola da tempo ma è entrata di ruolo solo a 60 anni, riconvertendosi al sostegno «con entusiasmo», dopo aver atteso invano la chiamata per un concorso sostenuto nel 2000. Su quel che il sistema dovrebbe garantire ha le idee chiare: «Dobbiamo sognare i ragazzi per quello che possono diventare, non per quello che sono: la cultura è la medicina del futuro per tutti gli studenti».
Ragazzi sempre più fragili, sempre più frazionati dalle disuguaglianze come si capisce dal rapporto “Il Mondo in una classe. Un’indagine sul pluralismo culturale nelle scuole italiane” di Save the Children, la scuola fa sempre più fatica ad appianare. Anche perché la percentuale di Pil che l’Italia investe per l’istruzione è di nuovo scesa: 4,1 percento contro la media dell’Unione europea del 4,8, i servizi come asili nido, mense e tempo pieno sono carenti e accessibili a pochi, la continuità didattica garantita con difficoltà: anche all’inizio di quest’anno almeno 40mila cattedre restano vuote. E sono circa 200mila i precari sulle cui spalle si regge la scuola, stima la Cgil.
Precari come Mariagrazia, pugliese, che insegna matematica in provincia di Firenze: «Dopo due anni nello stesso istituto, quest’anno mi hanno convocata nell’ultima scuola che avevo inserito tra le preferenze quando, a luglio, a scatola chiusa, senza conoscere le disponibilità, ho dovuto elencarle. Ora non posso rinunciare, pena l’esclusione dalla graduatoria per l’intero anno. E ho 24 ore di tempo per confermare l’incarico. Noi precari passiamo settimane in attesa di una chiamata che potrebbe rivoluzionarci la vita, che sicuramente determina quello che faremo nei mesi successivi, senza sapere se e quando avverrà». Riesce a vivere a Firenze solo perché ha trovato in affitto un appartamento fuori dal centro che condivide con il compagno. «Altrimenti me ne sarei andata come tanti colleghi del Meridione. I nostri stipendi sono insufficienti per vivere nella maggior parte delle città italiane. E a chi copre le supplenze brevi va ancora peggio, arrivano con mesi di ritardo». Come è successo a Luigi, precario campano in Veneto, che ha ricevuto ad agosto lo stipendio di maggio. O come Fabio, napoletano, che mentre si specializza in linguistica lavora saltuariamente come tecnico di laboratorio. «Vivere a Desenzano del Garda è costoso, come credono che sopravviva?», si chiede sfiduciato. soprattutto dopo aver letto che le regole per accedere all’insegnamento stanno di nuovo cambiando: «Avevo appena conseguito i 24 cfu, adesso ce ne vogliono 60 per partecipare ai concorsi per l’assunzione. Ho sempre voluto fare il professore ma ci sono sempre nuove norme, lo stress è continuo e la spesa per formarsi cresce».
Come spiega Gianna Fracassi, segretaria generale di Flc Cgil, «il nuovo decreto del presidente del Consiglio è imminente. Il rischio, però, è che si promuova più una “raccolta punti” che una reale formazione. Preoccupa la percentuale fino al 50 per cento di attività online, contro la previsione iniziale del 20. Per noi la formazione in presenza è garanzia di valore, così temiamo che si spalanchino le porte al business delle università telematiche». Secondo Fracassi è prioritaria la retribuzione dei docenti, mettendoli al centro dell’offerta formativa, senza frantumarne le competenze. «Abbiamo chiuso il contratto scuola 2019/21 a luglio scorso, quando era già scaduto. Nella prossima legge di Bilancio si dovrebbero inserire le risorse per il contratto 2022/24, ma siamo già alla fine del 2023. Lo Stato è il datore di lavoro dei professori. Ma da un lato scarica sulla scuola le responsabilità, delegandole tutte le educazioni che il resto della società non riesce a garantire. Dall’altro è avaro quando si tratta di riconoscerne il valore in termini remunerativi».
Così anche per il 2023/24 il sistema scolastico regge grazie alla buona volontà della comunità di persone che lo vive tutti i giorni – studenti, docenti, personale Ata, dirigente, genitori, educatori, ecc. «È ora che alle parole seguano i fatti – conclude Fracassi – con le pacche sulla spalla non si mangia».