Prima la cittadinanza per i giovani stranieri. Poi la lotta agli stereotipi sulle donne. Ora la tutela dei diritti digitali. La giovane attivista di origine iraniana racconta un percorso scandito nel bene e nel male dalla scuola e dai docenti

La vita di Pegah Moshir Pour è scandita da due documenti. Il primo in ordine di tempo è il passaporto iraniano, ormai inutilizzabile: dopo l’intervento sulle proteste delle donne di Teheran recitato al Festival di Sanremo dell’anno scorso, l’attivista non può più tornare nel Paese in cui è nata. Il secondo è la carta d’identità italiana ottenuta solo a 19 anni: «Mi chiama mia madre e mi dice: “Ti è arrivata la cittadinanza”. E io le rispondo: “Beh, era ora!”». 

 

In quel momento Moshir Pour era in Italia da dieci anni e aveva vissuto sulla sua pelle i problemi dei giovani senza documenti: è stato questo a spingerla verso un attivismo che l’ha portata a ricevere molti riconoscimenti, fino alle lodi del presidente della Repubblica Sergio Mattarella («Vorrei ringraziare molto la dottoressa Moshir Pour: la sua presenza stessa e le parole che ha usato sono un forte richiamo ai diritti umani e alla libertà») sul palco dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università della Basilicata: la regione in cui l’avventura italiana è cominciata.

 

Partiamo dalle elementari. A nove anni lei arriva in Basilicata dall’Iran, dove scriveva in caratteri arabi e al contrario…
«Sì, ero abituata a scrivere da destra verso sinistra. Anche libri e quaderni li aprivo dalla parte sbagliata: ho dovuto resettare tutto e ripartire da zero».

 

E la scuola come l’ha accolta?
«Non era pronta a occuparsi di una bambina straniera: del resto io e mio fratello eravamo gli unici stranieri in tutta la scuola. Siamo stati accolti molto bene ma c’era la difficoltà di capire come comunicare: a poco a poco, con un po’ di buona volontà da entrambe le parti, siamo riusciti a trovare una soluzione. Cose banali come parlare più lentamente oppure aiutarmi a cercare le parole sul dizionario – perché ovviamente non c’era Google traduttore e quindi dovevo tradurre ogni parola prima di arrivare a comprendere l'intero senso di una frase».

 

Perché vi siete trasferiti in Italia? I suoi genitori sono dovuti fuggire?
«In realtà è stata una loro scelta: si sono convinti che in Iran non ci poteva essere un futuro soprattutto per me, perché sono una donna. In quegli anni si cominciava a parlare di istituire la “gasht ershad”, la polizia morale, che è nata ufficialmente solo nel 2005 ma esisteva già prima».

 

 

In che anno siete arrivati?
«Era il 1999. Ed è una data importante. Io ero molto arrabbiata con i miei genitori perché avevano preso questa decisione: avevo nove anni e c’erano tante cose che non capivo. Ma nel luglio del ’99 c’è stata una delle pagine più sanguinose della storia dell’Iran. Gli studenti protestavano per la chiusura di un giornale, “Salam”, e università e dormitori sono stati circondati e invasi dalla polizia. Allora i miei hanno deciso che non potevano farci crescere lì, in un Paese in cui rischiavi di essere picchiato e ucciso all’interno dell’università». 

 

Perché siete andati in Basilicata? Glielo chiedo perché in una grande città non sareste stati gli unici stranieri a scuola…
«Il lavoro di mio padre ci ha portati qui: e in effetti sì, l’intera Basilicata è un grande paesone, per quanto è piccola…»

 

E dopo le elementari?
«Beh, le medie per me sono iniziate malissimo perché il primo giorno di scuola è stato poco dopo l’abbattimento delle Torri Gemelle. Quindi non ero più solo la straniera, ero anche “l’araba”, la potenziale terrorista».

 

E immagino che fosse impossibile cercare di spiegare che l’Iran non aveva niente a che vedere con l’attentato…
«…e che gli iraniani non sono nemmeno arabi. No, anche far capire dov’è l’Iran era un problema. Poi, a 15 anni, è scattata una voglia di rivincita verso la mia condizione, il fatto che non avevo la cittadinanza. È successo quando mi hanno negato una gita scolastica in Gran Bretagna perché non avevo la carta d’identità italiana e non potevo avere in tempo il visto dall’Iran. È lì che ho iniziato ad attivarmi per cercare di raccontare cosa vuol dire per un ragazzo che vive in Italia essere senza cittadinanza: nonostante io fossi accettata dalla comunità come italiana, per lo Stato non lo ero».

 

A che età è diventata italiana?
«Molto tardi, nel 2012. Ero al secondo anno di università, a Matera, avevo 19 anni. Ero rappresentante degli studenti, il mio impegno politico è cresciuto con me».

 

All’università lei ha fatto Ingegneria. E questo ci porta a un altro tema importante, perché in Italia le ragazze scelgono difficilmente le facoltà scientifiche. Non ha sentito pressioni contro questa sua scelta?
«Ne ho avute eccome… Ho fatto il liceo linguistico perché volevo conoscere altre lingue e culture, poi però ho deciso che c’erano anche altre cose che mi interessavano. Ma la mia scelta di Ingegneria edile l’ho fatta contro i consigli dei docenti. La professoressa di italiano in particolare mi ha detto che non avrei mai superato il primo anno, che sarei crollata su Analisi 1».

 

E perché lo diceva? Perché ci sarebbero stati problemi di lingua o perché non era una facoltà adatta a una donna?
«Diciamo che con i docenti di italiano io ho sempre avuto sfortuna: sia alle medie sia alle superiori volevano farmi ripetere l’anno. Anche se ero tra i pochi della classe a scrivere “qual è” senza apostrofo… Comunque anche grazie a esperienze come queste ho capito quanto fosse importante testimoniare contro gli stereotipi. Dire che le donne sono incapaci di fare i calcoli significa sminuire non la singola studentessa ma tutto il genere femminile. E questo lo devono capire le donne per prime: per questo chiedevo alle docenti di smetterla di inculcare queste scemenze nella testa delle ragazze! Il mio attivismo, quindi, è cambiato con il tempo: è partito dalla denuncia dei problemi dei cittadini italiani senza cittadinanza, poi è passato all’importanza delle materie scientifiche per il mondo femminile e da lì è arrivato anche il mondo digitale».

 

E cosa fa, come attivista digitale?
«La prima cosa è la divulgazione dell’importanza del digitale, far capire ai ragazzi che quello che per noi è scontato non lo è dappertutto. Lo si è visto proprio in Iran, dove se una ragazza pubblica su un social personale una foto in cui bacia il proprio ragazzo viene arrestata. Dall’altra parte però bisogna responsabilizzare le persone sui dati che diamo in pasto a Internet, e soprattutto chiedere che le Big Tech siano più etiche».

 

Tornando alla scelta di studiare ingegneria: l’idea che le materie scientifiche non siano adatte alle donne c’è anche in Iran?
«Al contrario: lì le donne praticamente studiano solo materie scientifiche perché danno la scelta, insegnare o lavorare in un’azienda. La situazione in Iran è questa: il 90% delle donne è alfabetizzato, il 70% è laureato e tra queste più della metà, circa il 60 per cento, ha studiato materie Stem. Nella ricerca ci sono così tante donne che sono state istituite delle “quote azzurre” per attirare i ragazzi. Perché le donne iraniane sono veramente molto brave e ottengono sempre più spesso master o borse di dottorato che permettono loro di uscire dal Paese».

 

E lei può tornare in Iran?
«No, adesso non più, purtroppo. Chi si espone contro il regime entra nella lista nera, e dal Sanremo dell’anno scorso in poi la mia sovraesposizione è stata alta… Il mio passaporto iraniano non potrò più utilizzarlo finché non cambierà qualcosa in Iran. E anche se il 70% degli iraniani ha meno di 35 anni, e sono energia pura, prima che ci siano cambiamenti ci vorrà molto, molto tempo».