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Giorgia Meloni evoca gli anni di piombo e prepara la stretta sulle piazze. Le notizie del giorno

Giorgia Meloni
Giorgia Meloni

Si allontana il cessate il fuoco di Gaza. Un missile russo sfiora Zelensky. Trump sbanca il Super Tuesday. I fatti da conoscere

Meloni evoca gli anni di piombo: "Clima preoccupante nell'anno del G7" e prepara la stretta sulle piazze

«C'è un clima che non mi piace e mi preoccupa nell'anno del G7: vedo toni che mi ricordano anni molto difficili per la nostra nazione». La premier Giorgia Meloni, parlando ai sindacati di polizia convocati a Palazzo Chigi dopo gli scontri di piazza e le polemiche per le manganellate ai ragazzi, evoca gli anni di piombo e si schiera dalla parte delle forze dell'ordine - «sottoposte ad una ingiusta campagna di denigrazione» - promettendo il rinnovo contrattuale per il comparto e nuove misure a tutela delle divise: si valuta l'applicazione del Daspo per i violenti nelle manifestazioni, l'arresto differito per chi causa lesioni ad un agente, bodycam per chiunque sia impegnato nel servizio di ordine pubblico. Tutti punti che potrebbero essere inseriti nei disegni di legge del pacchetto sicurezza approvato a novembre e che presto inizieranno l'iter parlamentare. La premier ha assicurato una "moral suasion" per accelerare i lavori. Del brutto clima, Meloni ha detto di sentirsi «responsabile perché parte di questo clima dipende dal fatto che c'è la necessità di attaccare la sottoscritta e questo governo. Mi preoccupa in un anno particolare, abbiamo la presidenza del G7, sarà un anno molto impegnativo, che investe la nostra credibilità sul piano internazionale». E l'idea che i vertici dei 7 Grandi siano accompagnati da scontri di piazza turba il governo. A soffiare sul fuoco, secondo la premier, ci sono «opinion maker» che offrono «cattivi insegnamenti» ai ragazzi. Bisogna quindi «contrastare una mentalità che vuole instillare nei più giovani che ci sono regole che possono non essere rispettate». Per questo, ha sottolineato, «noi vogliamo continuare a garantire il diritto a manifestare ma nel rispetto delle regole". La presidente del Consiglio ha quindi invitato i rappresentanti sindacali a mettere sul tavolo idee per migliorare la gestione dell'ordine pubblico. «Vogliamo raccogliere le proposte di chi è sul campo», ha detto. E da parte dei segretari delle organizzazioni sono arrivate una serie di indicazioni, non tutte condivise. Tra quelle che potrebbero fare strada c'è l'applicazione alle manifestazioni di piazza delle misure adottate contro la violenza degli stadi. In primis il Daspo contro i recidivi alle violenze di piazza. Ma anche l'arresto in differita di chi si macchia di azioni contro gli agenti. E poi le bodycam, che attualmente vengono usate solo dal caposquadra dell'ordine pubblico. «Ma se le usassero tutti quelli che fanno il servizio ci sarebbe un grande effetto di deterrenza sui violenti», secondo il segretario dell'Associazione nazionale funzionari di polizia, Enzo Letizia. Felice Romano del Siulp ha invocato «sanzioni economiche consistenti per chi non fornisce il preavviso di una manifestazione e per tutti coloro che vi partecipano travisati con caschi". Domenico Pianese del Coisp ha chiesto «sanzioni amministrative per tutti i partecipanti» alle manifestazioni violente, «maggiorenni e minorenni, e non solo per i promotori o per chi prende la parola. Non può più passare l'idea che sia possibile aggredire, minacciare e offendere un poliziotto senza che ci siano conseguenze». Unione degli studenti e Unione degli universitari bocciano il Daspo: «vergognoso», lo definiscono. Tanta carne al fuoco, dunque, e si vedrà quante delle proposte finiranno come emendamenti ai disegni di legge approvati nel pacchetto sicurezza. Non escluso che si attivi un provvedimento ad hoc. Nessuno spazio invece per i codici identificativi auspicati da esponenti dell'opposizione. Il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi ha ricordato che i poliziotti intervenuti a Pisa «si sono autoidentificati, come avviene sempre e ciò rende evidente quanto sia sterile la discussione ideologizzata che talvolta ruota attorno a certi istituti, a certe proposte che vengono fatte». 

 

 

Israele-Gaza: nessun accordo per una tregua prima del Ramadan

Si allontanano le speranze di raggiungere un accordo sul cessate il fuoco a Gaza e sul rilascio degli ostaggi rapiti da Hamas il 7 ottobre prima dell'inizio del Ramadan. Dopo lo stallo nei negoziati registrato nei giorni scorsi, la conferma che la trattativa sia a un punto morto arriva da funzionari Usa vicini al dossier citati dal New York Times. Il pressing degli Stati Uniti per un accordo prima dell'inizio del mese di digiuno musulmano, il 10 marzo, rimane forte. «Continuiamo a credere che gli ostacoli non siano insormontabili e che un accordo possa essere raggiunto... quindi continueremo a spingere per ottenerne uno», ha detto ieri a Washington il portavoce del dipartimento di Stato americano Matthew Miller. La stessa Hamas si è impegnata a continuare i colloqui al Cairo, ma le posizioni rimangono molto distanti. Il gruppo militante palestinese chiede il cessate il fuoco prima che gli ostaggi vengano liberati, che le forze israeliane lascino la Striscia e che tutti gli abitanti di Gaza possano tornare nelle loro case. Richieste che Israele considera inaccettabili. Gli Usa hanno invitato Hamas a tornare sui termini dell'intesa elaborata a Parigi a fine febbraio, che consentirebbe una pausa di sei settimane nei combattimenti e la liberazione di circa 40 ostaggi, tra cui donne, bambini, donne soldato e anziani o malati rapiti, in cambio di prigionieri palestinesi. L'ipotesi era quella di rilasciare almeno 15 prigionieri condannati per gravi atti di terrorismo in cambio delle donne soldato rapite il 7 ottobre, e per la liberazione di centinaia di altri detenuti o prigionieri da parte di Israele, «ad una media di 10 palestinesi per ogni civile israeliano liberato», hanno detto i funzionari Usa al NYT. Tuttavia, le richieste di Hamas che chiede un cessate il fuoco non temporaneo ma permanente, avrebbe fatto fermare la trattativa. Funzionari informati sui colloqui hanno affermato che Hamas si è «tirata indietro» dall'accordo proposto a Parigi e, oltre a un cessate il fuoco permanente, chiede anche il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza, il ritorno degli sfollati di Gaza alle loro case nella zona nord della Striscia.

 

Un missile russo sfiora Zelensky e Mitsotakis a Odessa

«Abbiamo visto e abbiamo sentito». E' stato lo stesso Volodymyr Zelensky ad ammettere che stavolta i russi hanno sfiorato il bersaglio grosso, attaccando la città di Odessa durante la visita del presidente ucraino e del premier greco Kyriakos Mitsotakis. Un missile di Mosca è infatti caduto ad appena 150 metri di distanza dalle delegazioni, ha raccontato ai media di Atene il ministro Stavros Papastavrou, presente nel gruppo. E c'è chi sostiene - come il quotidiano greco Protothema - che l'obiettivo del raid fosse proprio il corteo di Zelensky, senza tuttavia trovare conferme ufficiali. Di tutt'altro tenore infatti è la rivendicazione di Mosca, secondo cui il raid era diretto contro un hangar militare per la produzione di droni marini nel porto della città, che «è stato colpito». Una ricostruzione coerente con quanto affermato dalla Marina ucraina, per la quale l'attacco si è abbattuto sulle «infrastrutture portuali», provocando cinque morti. Secondo Nataliya Humenyuk, capo del centro stampa congiunto delle Forze di difesa del sud dell'Ucraina, il missile sul porto «non ha nulla a che fare con una visita specifica, bensì con il terrore che la Russia esercita in modo metodico». «Vedete con chi abbiamo a che fare. A loro non importa dove colpire», ha detto Zelensky in conferenza stampa accanto a Mitsotakis, che nonostante il raid ha concluso la sua missione a sorpresa in Ucraina, anche visitando il luogo dell'attacco che il 2 marzo scorso ha ucciso 12 persone nella città costiera. Poco dopo la visita al porto, «abbiamo sentito il suono delle sirene e delle esplosioni molto vicino a noi. Non abbiamo avuto il tempo di andare nei rifugi», ha affermato il premier greco parlando di «un'esperienza impressionante» che fortunatamente ha lasciato illesa la delegazione in visita. «È davvero diverso leggere della guerra sui giornali e sentirla con le proprie orecchie, vederla con i propri occhi», ha sottolineato il leader ellenico prima di ribadire con forza che «tutta l'Europa sostiene la lotta dell'Ucraina per la libertà e l'indipendenza».

 

Trump sbanca il Super Tuesday, Haley getta la spugna

Con un successo «storico», Donald Trump sbanca anche il Super Tuesday conquistando nettamente 14 Stati su 15 e restando l'unico candidato repubblicano per la Casa Bianca. La sua rivale Nikky Haley, dopo aver strappato a sorpresa il suo secondo successo nel liberal Vermont, si arrende alla matematica e getta la spugna ritirandosi dalla corsa ma senza dare il suo endorsement al tycoon. Anche Joe Biden fa il pieno di delegati, pur con l'imbarazzante sconfitta alla isole Samoa che, come nel 2020 con Michael Bloomberg, hanno premiato un altro outsider: lo sconosciuto finanziere Jason Palmer. Il super martedì della politica americana decreta così la fine della corsa alla Casa Bianca e la riedizione di un duello che la maggioranza degli americani non gradisce, e non solo per l'età dei contendenti. Il tycoon ha già 1.053 delegati, di cui 777 incassati in questa tornata: tra il 12 e 19 marzo conta di arrivare ai 1.215 necessari per rivendicare la nomination ed essere incoronato alla convention di luglio. Nel frattempo potrà concentrare tutte le risorse del partito nella sfida contro Biden, anche se per colmare il gap finanziario e fronteggiare le sue astronomiche spese legali sta corteggiando Elon Musk. Il presidente, che praticamente non ha veri rivali (Dean Phillips ha lasciato oggi garantendogli il suo appoggio), ha già guadagnato 1.556 delegati sui 1.968 necessari. Ma a spianare definitivamente la strada al 'rematch' è stata la mossa della Haley, che ha sospeso la sua campagna anche se formalmente non si è ritirata: continuerà così a tenere i delegati e ad influenzare i donatori. «E' tempo di lasciare», ha annunciato parlando dal suo quartier generale di Charleston, dove si è congratulata con Trump ma senza dargli il suo appoggio. «Sta a lui guadagnarsi i voti dei miei elettori», ha avvisato citando Margaret Thatcher, dopo avergli ricordato che l'unità del partito repubblicano da lui agognata non si raggiunge a parole. Quindi ha rimarcato l'abisso che li separa in politica estera, ribadendo che «è un imperativo morale stare al fianco dei nostri alleati anche in Ucraina». «Non ho rimpianti e non cesserò di usare la mia voce», ha promesso, denunciando un Congresso «pieno di follower ma non di leader». Resta da capire come la Haley intenda muoversi e condizionare la campagna. Di sicuro non vuole bruciare le sue ambizioni politiche ed è forse per questo che, pur intensificando recentemente gli attacchi al tycoon, non ha affondato i colpi sulle sue menzogne e sui tentativi di sovvertire le elezioni, culminati nel violento assalto al Congresso. Del resto il partito ormai fa quadrato sull'ex presidente o si piega alla sua inevitabile candidatura. Come il leader dei senatori repubblicani Mitch McConnell, che dopo il ritiro della Haley ha annunciato il suo endorsement a un leader che ha tentato di farlo fuori e con cui non parla dall'attacco al Capitol. Trump e Biden intanto alzano il tiro degli attacchi reciproci e si contendono gli elettori dell'ex ambasciatrice all'Onu, che anche nel Super Tuesday ha dimostrato di saper catalizzare il voto dei moderati e degli indipendenti, cruciale negli Stati in bilico per vincere le elezioni. Il tycoon li ha invitati ad «unirsi al più grande movimento nella storia della nostra nazione» ma non ha rinunciato a criticare Haley, sostenendo che «gran parte del suo denaro proveniva dai democratici della sinistra radicale, così come molti dei suoi elettori, quasi il 50% secondo i sondaggi».

 

Schlein a tappe forzate in Abruzzo. Ma resta rebus Basilicata

Una marcia a tappe forzate, più che un tour elettorale, quella di Elly Schlein in Abruzzo. La segretaria del Partito Democratico ha pianificato nove appuntamenti in due giorni, da Chieti a Pescara, passando per Sulmona e per diversi centri piccoli e piccolissimi: Castel di Sangro, Manoppello, Carsoli, fra gli altri. E la leader dem avrebbe voluto aggiungere altre tappe: i dirigenti a lei più vicini ripetono che è il suo stile di portare avanti le campagne elettorali. Lo ha fatto anche la prima volta da candidata, alle europee del 2014, e lo ha fatto durante la campagna congressuale. La necessità di infittire l'agenda abruzzese, tuttavia, risponde anche a un'altra esigenza. Fonti parlamentari dem osservano che a sostegno del candidato presidente del centrodestra, Marco Marsilio, ci sono molte liste civiche, più di quante ce ne siano a sostegno di Luciano D'Amico. Questo vuol dire più persone che battono da cima a fondo il territorio, quindi più voti. La scelta del super impegno di Schlein, è il ragionamento che viene fatto, risponderebbe anche a questa esigenza. La strategia di Schlein si muove su un doppio binario: mettere in evidenza le carenze di cinque anni di governo della destra e convincere il "partito dell'astensionismo" ad andare a votare per D'Amico. «Ciò a cui dobbiamo puntare è ridurre l'astensionismo che in Sardegna è stato del 47 per cento», dice la segretaria. Al di là di queste considerazioni, la fiducia dei dem di portare a casa il massimo risultato è in crescita ed è nutrita dall'elmetto che la premier Gorgia Meloni ha metaforicamente indossato sul palco di Pescara: una presa di posizione forte da parte della premier che - è il ragionamento dei dem - dimostra come tra le fila avversarie aumenti la paura. Schlein ci scherza su, dicendo che lei, «da pacifista, avrebbe cercato una metafora diversa dall'elmetto», ma aggiungendo subito dopo: «E' cambiato il clima, c'è fiducia e speranza attorno alla coalizione che sostiene Luciano D'Amico». Anche per via di alcune contraddizioni che si manifestano nella compagine governativa.

 

Dossieraggio. Melillo parla all'Antimafia: "Striano può non aver agito solo"

Un’audizione fiume durate oltre quattro ore quella del procuratore nazionale Antimafia, Giovanni Melillo, sentito ieri a Palazzo San Macuto dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, in relazione all'inchiesta della procura di Perugia sul presunto dossieraggio. Introducendo la sua lunga relazione, Melillo spiega: «Ho chiesto di essere ascoltato affinché vengano colti i fatti e i problemi e per allontanare il pericolo di speculazione e di letture strumentali di vicende che riguardano delicate funzioni statuali. Per tacere delle punte di scomposta polemica che sembrano mirare non ad analizzare la realtà e a contribuire alla sua comprensione e all'avanzamento degli equilibri del sistema ma ad incrinare l'immagine dell'ufficio e a delegittimare l'idea di istituzioni neutrali come la Procura nazionale antimafia e magari anche la Banca d'Italia». Melillo appare convinto di un aspetto: il sottotenente Striano non può aver agito da solo nell’opera di raccolta abusiva di dati. «Difficilmente il sottotenente Striano può aver fatto tutto da solo - dice - Ne parlo con cognizione di causa anche perché anche io sono stato oggetto di Dossieraggio, visto che un fascicolo su di me fu trovato nell’archivio di Pio Pompa negli uffici che furono del Sismi». «Esiste un mercato delle informazioni riservate – prosegue Melillo - Bisogna capire se è il frutto della debolezza dei sistemi digitali, se è un caso. O se invece esistono delle logiche più sofisticate e ampie. Credo che l’indagine di Perugia consenta di mettere qualche mattoncino per immaginare una costruzione più ampia. È una mia personale impressione, quella di un magistrato con quarant’anni di esperienza». In merito al presidente della Figc, Gabriele Gravina, che risulta indagato dalla Procura di Roma, Melillo sottolinea: «Non c’è dubbio che i fatti attribuiti al presidente della Federcalcio non abbiano nulla a che fare con la missione istituzionale della Procura Nazionale Antimafia. Tutto quello che avevo da segnalare è stato segnalato al procuratore di Roma che ha trasmesso il fascicolo al procuratore capo di Perugia»

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