Il pericolo di un attacco a Rafah e le frizioni con Joe Biden disegnano uno scenario complesso. Con il premier israeliano che, secondo gli esperti, ha solo da guadagnare da un conflitto più lungo. «Se il governo crolla, lui va in carcere»

Nel marzo del 2010, l’allora vicepresidente Joe Biden si recò a Gerusalemme per promuovere i piani di pace di Barack Obama. «Durante la visita venne umiliato dall’annuncio di Benjamin Netanyahu della costruzione di nuovi insediamenti. Si arrabbiò molto, ma rientrato a Washington non fece nulla. Dissi al suo team che era un terribile errore, stavano facendo capire al primo ministro israeliano che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa senza temere ripercussioni. Se non lo fermate ora, previdi, ne pagherete le conseguenze. È esattamente quello che sta succedendo oggi». Nimrod Novik – membro dell’Israel Policy Forum e in passato consigliere di politica estera di Shimon Peres – commenta con questo ricordo l’arroganza e l’indifferenza di Netanyahu ai messaggi che arrivano dalla comunità internazionale: un appello accorato a non compiere un attacco «su larga scala» a Rafah, senza prima un piano preciso per mettere in sicurezza centinaia di migliaia di civili. Corre lungo i confini di questa cittadina a Sud di Gaza la linea rossa tracciata dal presidente Biden che, in un’intervista alla Cnn, ha minacciato l’intenzione di non fornire più armi d’attacco a Israele se l’esercito dovesse addentrarsi ancora di più nei centri popolosi dell’area. Rifugi, questi, per quasi un milione e mezzo di palestinesi in fuga dai bombardamenti sulla Striscia.

 

Dal giorno uno delle operazioni – scattate in seguito all’attacco terroristico di Hamas il 7 ottobre 2023, in cui furono uccisi quasi 1.200 israeliani e catturate più di 240 persone – Israele ha sempre ripetuto che la vittoria finale arriverà solo quando l’organizzazione paramilitare islamica verrà totalmente cancellata e gli ostaggi saranno liberati. Il piano per raggiungere entrambi gli obiettivi prevede l’ingresso a Rafah e l’annientamento dei quattro battaglioni che lì si nascondono. Il rischio, però, è un’ulteriore catastrofe umanitaria: il massacro di migliaia di civili, che si andrebbero a sommare ai quasi 35 mila palestinesi già uccisi dall’inizio del conflitto. 

 

L’allontanamento pubblico di Biden da Bibi – che ha scatenato non solo le critiche del governo israeliano, ma anche quelle dei repubblicani in casa – è la rappresentazione plastica delle divergenze e delle priorità politiche di entrambi, amici-nemici ormai da quarant’anni. Il presidente ha bisogno che la guerra finisca non solo in vista delle elezioni di novembre, ma anche per attuare la strategia Usa in Medio Oriente, per riprendere i negoziati con l’Arabia Saudita e con i partner arabi. Il leader israeliano, invece, sa bene che la fine dei combattimenti potrebbe coincidere con una consultazione elettorale che, secondo i sondaggi, quasi certamente segnerà la fine della sua carriera politica.

 

Joe Biden e Benjamin Netanyahu durante la visita che il presidente Usa ha compiuto in Israele dopo la strage compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023

 

Secondo Novik, Biden ha aspettato troppo a lungo prima di esporsi pubblicamente, nella speranza di riuscire a far ragionare in privato il primo ministro. «Netanyahu sa di fare qualcosa di negativo per il suo Paese – spiega l’ex consigliere di Peres – un anno e mezzo fa ha formato un governo che comprende nomi tra i più estremi della società israeliana. Oggi dipende da loro. Se uno si ritira, per lui è finita. I suoi interessi vengono prima di quelli nazionali; di conseguenza, ci troviamo in una fase di scontro con la componente più importante della sicurezza nazionale israeliana, ovvero la relazione strategica con gli Usa». Una frattura tra i due alleati è impossibile (lo stesso presidente americano ha chiarito che non sono in discussione i rifornimenti statunitensi per la difesa di Israele), ma secondo Novik se l’esercito dovesse raggiungere i centri più popolosi di Rafah, oltre al mancato invio di armi d’attacco, «Biden potrebbe rivolgersi direttamente all’opinione pubblica israeliana e dirle: “Il vostro primo ministro sta minando la sicurezza del Paese. Siete uno stato sovrano, ma io credo che lui vi stia conducendo in un vicolo cieco”». Ipotesi non impossibile. «Quando ero consigliere – ricorda – Clinton venne ad aiutare Shimon Peres a essere rieletto».

 

Per lo studioso, il cambiamento ai vertici è vicino e potrebbe arrivare entro la fine dell’anno. Secondo due recenti sondaggi, oltre il 70% degli israeliani vuole Bibi fuori dai giochi politici, mentre la maggioranza sostiene che il primo ministro stia conducendo la guerra guidato dai suoi interessi personali.

 

«Israele ha sempre detto che ha due obiettivi: distruggere Hamas e liberare gli ostaggi. In realtà ce n’è un terzo – spiega James Gelvin, storico dell’Ucla e autore del manuale “The Israel-Palestine Conflict. A History” – Netanyahu vuole evitare la prigione (è accusato di corruzione, frode e abuso di potere). Per questo ha bisogno che il conflitto duri a lungo. Se il governo crolla, lui va in carcere. La sua maggioranza in Parlamento è risicata». E per questo, nonostante l’isolamento internazionale di Israele a causa della linea dura del governo (emblematica la recente risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu che riconosce la Palestina come qualificata per diventare membro a pieno titolo delle Nazioni Unite), Bibi non mostra tentennamenti.

 

Per Aaron David Miller – con una carriera passata al dipartimento di Stato come analista e negoziatore per il Medio Oriente – Israele ha bisogno di un nuovo governo. «È però importante capire che in ballo non c’è solo la volontà di Netanyahu, ma di tutto il Gabinetto di guerra. Anche Benny Gantz, possibile successore, sostiene un’operazione a Rafah». Dopo la presa di posizione pubblica di Biden, Miller è però convinto che «gli attacchi in quest’area continueranno, ma non arriveranno a un punto tale da far scattare la reazione degli americani. Gli Usa vogliono un cambio – dice ancora – ma è molto importante che si arrivi a un cessate il fuoco e al rilascio degli ostaggi (gli ultimi colloqui al Cairo sono finiti con un nulla di fatto, ndr). Solo in quel caso, potremmo immaginare gli Stati arabi disposti a partecipare alla costruzione una qualche forza di sicurezza, una diversa leadership palestinese, un’offerta saudita per la normalizzazione dei rapporti, un percorso diverso per israeliani e palestinesi».

 

Però, intanto, «il tempo che passa non aiuta Biden – riflette ancora l’ex consigliere – tra poco ci saranno le convention, poi le elezioni. E anche se la guerra a Gaza non porterà i delusi a votare per il repubblicano Donald Trump, potrebbe farli restare a casa. E in un testa a testa, questa è una brutta eventualità per il democratico».

 

Nell’anno in cui Biden lotta per un secondo mandato alla Casa Bianca, bisognerebbe rendergli il merito di avere mantenuto un impegno a lungo termine in Medio Oriente. Nonostante le critiche arrivate da una parte del suo partito e dell’opinione pubblica per una posizione troppo accondiscendente verso Israele. Di questo è convinta Naomi Weinberger, professoressa di Studi internazionali alla Columbia University. «Le proteste nei campus universitari sono nate da una sincera preoccupazione per possibili crimini di guerra e per l’emergenza umanitaria in corso. Per questo Rafah è anche simbolicamente così significativa, si rischia una calamità assoluta». Opponendosi al progetto di Netanyahu, precisa Weinberger, «il presidente sta facendo gli interessi a lungo termine di Israele. Non si può andare avanti così. Tutti gli analisti concordano sul fatto che Hamas non si possa distruggere militarmente, senza un piano che sia anche politico per Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme. Abbiamo visto come Hamas sia già riuscita a riprendere forza a Nord di Gaza. Ecco perché serve un progetto politico che preveda un futuro in cui entrambe le visioni, quella israeliana e quella palestinese, siano realizzate».