In Colombia, Messico, Nord del Brasile, Argentina (e non solo), la siccità sta mettendo in ginocchio milioni di persone. Un disastro soprattutto per i più poveri. E per l’intera economia

A Bogotà ci ridono sopra. La chiamano la «doccia dei 4 minuti»: ironia per esorcizzare l’emergenza. Il sindaco Carlos Fernando Galán ha emesso un’ordinanza che chiude i rubinetti dell’acqua potabile ogni due giorni. Per 24 ore le case di almeno metà dei 7 milioni di residenti restano a secco. A turno. A Città del Messico, 9 milioni di abitanti hanno atteso con ansia il 26 giugno. Era considerato il «giorno zero». La data in cui si sarebbero esaurite tutte le scorte idriche della immensa metropoli. È stato superato. Ma solo rinviato.

 

Il bacino di Chuza, quello che garantisce il 70 per cento dell’approvvigionamento idrico alla capitale della Colombia, è ridotto al 17 per cento del suo livello normale. È il più basso dal 1984. Il presidente Gustavo Petro ha scritto su X una verità amara: «È solo l’inizio, per i prossimi 30 anni dobbiamo abituarci a cambiare le nostre vite». A Città del Messico, metà della popolazione (4 milioni) da un mese fa i conti con un veleno misterioso che ha inquinato la rete idrica di dieci quartieri. Ci voleva anche questo per infiammare un clima già esasperato. Due settimane fa 280 “colonie” sulle 1.800 presenti nella capitale del Messico hanno scoperto di avere accesso all’acqua solo quattro ore al giorno. Un taglio drastico. Il sistema Cutzamala, il principale acquedotto di tutta la Valle del Messico, ha dimezzato le sue riserve e adesso ne ha solo il 39 per cento. Il caldo eccezionale e prolungato, nel Nord e nel Centro del Paese, ha prosciugato anche i pozzi che suppliscono al 40 per cento dell’approvvigionamento di acqua potabile.

 

La stessa cosa avviene in Cile, negli Stati centrali e Nord del Brasile, in Uruguay, in Argentina, in Honduras, Salvador, Guatemala. L’America Latina fa i conti con una penuria idrica come mai accaduto prima.

 

il bacino della riserva idrica di El Guavio in Gachalá, Colombia, quasi a secco

 

Un paradosso se si pensa che l’intero continente, secondo dati ufficiali, possiede il 35 per cento dell’acqua dolce: 1/3 di tutta quella presente sul nostro pianeta. Eppure, stando ai dati 2022 del Programma Congiunto Oms/Unicef per il Monitoraggio sul livello idrico e della salute, ben 161 milioni di abitanti di questa fetta del mondo non hanno accesso all’acqua potabile pulita (25 per cento della popolazione) e altri 431 milioni (66 per cento) non usufruiscono di servizi igienico-sanitari. Si lavano poco e male. Non per incuria ma perché costretti.

 

È iniziata la battaglia per l’oro blu. Una sfida che ci impegnerà per i prossimi 30 anni. È il nuovo bene primario, vitale per chi abita il nostro pianeta. Umani e animali, ma anche flora. La stessa terra. Ne chiediamo molta, ne consumiamo troppa. Siamo in piena crisi idrica. Il 2023 verrà ricordato come l’anno più caldo mai registrato sulla Terra. Il 2024 rischia di superare il record. Ci consoliamo pensando che si tratti di una emergenza momentanea. Qualcosa che accade da secoli, come un ciclo che segue il suo corso naturale. Ma oltre a essere una bugia, è una visione miope. Ammesso che sia vero, bisogna considerare che il mondo è cambiato. Dal primo gennaio 2024 siamo diventati otto miliardi. Abbiamo necessità diverse. Maggiori e più estese. L’Europa si allarma per le siccità che aggrediscono il Sud e il Nord del continente. La regione del Maghreb soffre per una penuria idrica che ha sempre affrontato con le sue riserve. Il Marocco ha dovuto introdurre tagli con turni nell’erogazione.

 

Non è un problema di sottosviluppo o di mancati standard di modernizzazione. Si calcola che il consumo o l’utilizzo di acqua crescerà dell’1 per cento nei prossimi 30 anni. Le cifre tratteggiano una realtà che sottovalutiamo. L’aumento medio della temperatura di 1,2 gradi, considerato già un «punto di non ritorno», è dovuto allo squilibrio ambientale che riguarda l’intero pianeta. Il caldo scioglie la calotta dei due Poli, il livello dei mari aumenta, corrode le coste, avanza nell’interno. Costringe intere popolazioni a emigrare, abbandonando case e terreni coltivati, oltre ad affetti e abitudini. Persino la dengue, il virus trasmesso da un tipo di zanzara, ha raggiunto Paesi dove era sconosciuta. Nasce dove la siccità si alterna alle alluvioni lasciando pozze di acqua che ristagnano.

 

La presenza del Niño, il fenomeno meteorologico che quest’anno dopo una lunga assenza è tornato ad affacciarsi sul Pacifico, ha prodotto la «tempesta perfetta». Ha aumentato le ondate di calore che innestano incendi, riscaldano le acque dell’Oceano, provocano la fuga del pesce alla ricerca delle correnti fredde; lascia sul lastrico milioni di pescatori già afflitti da sversamenti in mare di petrolio e altri oli, come è avvenuto l’estate scorsa in Perù, e dalla spietata concorrenza delle flottiglie cinesi. Si attendeva con ansia l’arrivo della sorella Niña con le sue correnti fredde. Ma è in ritardo e non è detto che compensi il caldo torrido degli ultimi mesi. Provoca solo violenti acquazzoni. Come a Porto Alegre, nel Rio Grande do Sul in Brasile. La città, industriale e tra le più ricche del Paese, è stata sommersa dall’acqua dei fiumi che sono esondati. Ora è ricoperta da uno strato di fango e detriti. Ci vorranno 20 anni per riportarla al suo splendore.

 

Lo scenario descritto quest’anno dagli esperti del Gruppo intergovernativo sul Cambiamento climatico (Ipcc) non è incoraggiante. Stimano che l’aumento della temperatura si protrarrà fino al 2070 e che questo ridurrà le precipitazioni al 20 per cento nel Nord Est del Brasile, in Messico, in America Centrale e nei Caraibi. L’Organizzazione degli Stati americani (Osa) sostiene che le siccità del 2023 e dei primi cinque mesi di quest’anno hanno finito per aumentare la povertà, l’insicurezza alimentare, la migrazione e l’aumento delle differenze di genere. L’ultimo rapporto del Global Water Monitor Consortium conferma questa tendenza. «Il caldo record in tutto il mondo ha avuto un impatto profondo sul ciclo globale dell’acqua», si legge nelle conclusioni. «Esso ha contribuito non solo all’aumento del numero degli incendi boschivi, come in Canada e in Brasile, ma ha generato, di riflesso, tempeste, uragani, inondazioni».

 

Piove sempre meno e, quando accade, l’acqua arriva dal cielo come una cascata. I meteorologi avevano avvertito a metà 2023: gli eventi atmosferici, come acquazzoni e uragani, saranno meno numerosi ma più intensi. Così è accaduto in Nuova Zelanda, Mozambico, Malawi, Myanmar, Grecia, Libia, Australia. L’Italia ha pagato e paga il suo prezzo. Parte dell’Emilia-Romagna è stata sommersa dai fiumi che sono esondati sotto la pioggia incessante; stessa cosa è accaduta pochi mesi dopo alla Toscana. Due settimane fa nel Nord Est; lo scorso week end in Valle d’Aosta e Piemonte. Strade distrutte, paesi isolati come Cogne, ponti abbattuti dalla furia dei torrenti trasformati in valanghe. Albert Van Dijk, docente dell’Australian National University e presidente del Global Water Monitor Consortium ricorda che «un totale di 77 Paesi hanno registrato la temperatura annuale più alta degli ultimi 45 anni».

 

Il riempimento di un’autocisterna per la distribuzione dell’acqua a Ecatepec

 

Ma il caldo prosciuga anche i grandi fiumi. Il Paraná, l’autostrada acquatica che attraversa Paraguay, Brasile e Argentina fino a sfociare nell’Atlantico, è al minimo del suo livello da mesi. Le navi non sono più in grado di solcarlo e questo ha messo in crisi l’intero commercio nella parte meridionale del Sud America che avviene principalmente via acqua. Le immagini delle barche in secca su spianate di terreni aridi e screpolati nel Rio delle Amazzoni hanno scioccato il mondo. E quando sono stati trovati morti soffocati oltre 150 delfini a ottobre scorso la realtà si è imposta come una frustata.

 

Il Brasile è dovuto ricorrere ai ripari. Ha chiuso la più importante centrale idroelettrica perché, senza acqua, le turbine non riuscivano più a girare. Si è tornati alle centrali a gasolio, con nuove emissioni di carburi. Privati dei collegamenti via fiume, milioni di abitanti degli Stati di Amazônas, Rondônia e Acre sono rimasti tagliati fuori dal resto del Paese. Non possono fare acquisti, rifornimenti, vendere le loro merci. Senza lance e barche, si è interrotto un business che fa campare città e regioni. Il governo centrale ha dovuto utilizzare gli elicotteri e gli aerei per trasportare uomini e cibo. Ma i costi sono aumentati e la gente ha dovuto adattarsi. Perfino il Canale di Panama, per la prima volta nei suoi 104 anni di vita (1920), ha dovuto ridurre il numero di passaggi di grandi cargo e petroliere. Da 36 sono passati a 24 e dal febbraio solo 18 navi possono attraversarlo ogni giorno. Sono lievitati i prezzi nei trasporti marittimi: un aumento che si è subito riflesso sui consumatori.

 

Ma l’acqua serve anche e soprattutto per l’agricoltura. Lo sanno bene i contadini e i grandi coltivatori del Nord del Messico alle prese con una battaglia con gli Stati meridionali degli Usa. Le distese di piante da frutta, ma lo stesso avocado così richiesto per il guacamole, hanno bisogno di essere continuamente dissetate. L’oro blu diventa così motivo di scontro e di forti contrasti tra chi può accedere alle falde e chi si deve accontentare dei rivoli. I cartelli della criminalità si sono buttati su questo nuovo bene imponendo tariffe e tasse di usufrutto. Molti proprietari hanno dovuto mollare lasciando spazio a chi si impone con le armi.

 

L’acqua è da tempo riconosciuta come un motore di crescita economica. Con un paradosso. I Paesi a medio e basso reddito ne hanno bisogno per sviluppare le loro economie ma hanno anche necessità di crescita economica per finanziare il loro sviluppo idrico. Ci sono ampie regioni del mondo dove questo bene prezioso è alla base di conflitti. La storia si ripete nei secoli: avvelenare i pozzi è sempre stata una tecnica per assetare i nemici o gli invasori. Oggi i pozzi sono quasi vuoti. Da vittime o bersagli rischiano di diventare cause delle guerre del futuro.