Personaggi e interpreti
Perché non si può dare per scontato il risultato del referendum sull'Autonomia
Personaggi e interpreti
Perché non si può dare per scontato il risultato del referendum sull'Autonomia
Per qualcuno sarà un successo, per altri un flop. Ma, di fronte a questioni cruciali come la legge Calderoli, la reazione dei cittadini può sorprendere. E il quorum contro una norma che divide Nord e Sud potrebbe essere raggiunto
È davvero una spada di Damocle, per il governo Meloni, il referendum sull’autonomia differenziata per il quale voteremo – ormai sembra certo – nella primavera del 2025? Oppure sarà solo un gigantesco autogol per l’opposizione che regalerà alla presidente del Consiglio una nuova vittoria? Sulla questione esistono ormai due scuole di pensiero opposte, che possono entrambe contare su solidi argomenti.
Tutto nasce, come sappiamo, dalla legge approvata in via definitiva dal Parlamento il 19 giugno scorso che apre la strada al trasferimento alle Regioni di poteri legislativi su una lunga lista di materie, dall’istruzione alla salute. È la legge che i cinquestelle hanno ribattezzato, con una formula efficace, “Spacca-Italia”, perché rischia di allontanare ancora di più le Regioni più ricche del Paese da quelle più povere. Avendo perso la battaglia in Parlamento, l’opposizione punta al referendum abrogativo: al deposito del quesito in Cassazione si sono presentati Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli, Maria Elena Boschi, Riccardo Magi, Maurizio Landini e una serie di associazioni, dall’Anpi al Wwf. E così il fronte anti-Meloni, che mai era stato così plasticamente compatto, ha lanciato la sua sfida.
Ecco perché tutti oggi mettono in agenda il referendum di primavera, che sarà indetto, come prevede la legge, in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno. Eppure, mentre i promotori ostentano ottimismo, l’unico che non c’era nella foto di gruppo davanti alla Cassazione – Carlo Calenda – sostiene che è un’operazione suicida. «Per raggiungere il quorum dovremmo portare a votare 13 milioni di italiani in più rispetto a quelli che hanno votato alle Europee i partiti che lo propongono». Dunque se il referendum fallirà Giorgia Meloni potrà legittimamente sostenere, avverte Calenda, che tutte le forze di opposizione unite sono minoranza nel Paese.
A guardare i numeri, ha ragione. Però c’è un dato che lui sottovaluta ed è l’imprevedibilità degli elettori. Come abbiamo appena visto in Francia, di fronte a una sfida decisiva molti cittadini che prima si erano astenuti corrono alle urne e ribaltano il risultato.
Ricordo che molti anni fa – era il 1990 – quando la Corte costituzionale approvò solo il referendum sulla riduzione delle preferenze da quattro a una, dopo aver bocciato i quesiti sul maggioritario e sull’elezione diretta dei sindaci, Mario Segni mi chiese quante probabilità c’erano che si raggiungesse il quorum. «Nessuna», gli risposi io. Ritenevo che pochi elettori sarebbero andati alle urne per rinunciare a tre preferenze e consideravo che il fronte referendario poteva contare sulla carta su 15 milioni di voti, mentre ne servivano almeno 24 milioni per raggiungere il quorum. Lui decise di andare avanti lo stesso, e i fatti dimostrarono che aveva ragione lui (e torto io): il 9 giugno 1991 si presentarono ai seggi 29 milioni 609 mila italiani, che avevano capito perfettamente il significato di quel voto.
È possibile che la stessa cosa accada in primavera? È difficile dirlo. Ma se il referendum sulla legge Calderoli diventerà una conta sul governo Meloni, e insieme una sfida tra i ricchi del Nord e i poveri del Sud (semplificazione brutale), non è detto che il quorum rimanga un miraggio.