Un artista mancato. Pieno di difetti. E di contorsioni morali. Il film di Nuri Bilge Ceylan dura 197 minuti ma non ce n’è uno di troppo

Nel nuovo film di Nuri Bilge Ceylan tutti hanno perso qualcosa, più o meno definitivamente, ma ci vuole un po’ per capirlo. Il grande regista turco infatti non racconta storie. Allestisce misteri. Dandoci molti strumenti (anche emotivi) per interpretarli, ma non tutti. Il resto del lavoro spetta a noi e ognuno può trarre le sue conclusioni. Magari smarrendosi lungo la via per ritrovarsi ogni volta in un posto diverso dal previsto. Come sa chi conosce “Uzak”, “Il regno d’inverno”, “C’era una volta in Anatolia”, il suo film più ambizioso e più bello.

 

Ma partiamo dalle certezze, ci sono anche quelle. Siamo in un paesino nel Nord Est dell’Anatolia, oggi, tra Siria, Armenia e Iran. Fuori tutto è bianco come la neve che copre quelle regioni molti mesi l’anno. Dentro, in fondo all’anima dei protagonisti, domina invece il grigio in tutte le sue sfumature. Il protagonista, Samet, è un professore di educazione artistica ancora quasi giovane che sembra uscito da Cechov e sogna di tornare a Istanbul. Anche se vivere quella specie d’esilio come una condanna non gli impedisce di scattare magnifiche foto ai luoghi e ai loro abitanti. Un uomo meschino o inaridito può benissimo essere un artista, l’intero film poggia su questa apparente (e crudele) contraddizione.

 

Umanamente infatti Samet non è un modello. Pigro, opportunista, sognatore, manipolatore, ignaro di sé. È anche troppo sensibile all’infinita varietà del mondo per non lasciarsi irretire da tutto ciò che è bello, insolito, vulnerabile, in una serie di apparenti digressioni che oltre a scolpire a meraviglia quel microcosmo (siamo nelle regioni curde ma la questione è appena accennata) danno un rilievo speciale al personaggio e alle sue ambivalenze. 

 

La prima di queste ambivalenze è una sua giovanissima allieva, la più dotata, la più graziosa, la più coccolata. La seconda una affascinante collega (la superba Merve Didzar, palma per l’interpretazione a Cannes) che ha perso una gamba in una manifestazione ed è in tutto il suo opposto, tanto che Samet... Di più non diremo, basterebbe la lunga, tortuosa marcia di avvicinamento dei due personaggi, con le sue ragioni inconfessabili ma tanto più vere, a fare del film un gioiello. 

 

La forza di questo “Racconto” non sta però nel suo centro quanto in ciò che lo circonda, lo modella, lo rende ancora più amaro. I molti e memorabili comprimari, i paesaggi, il rapporto con un tempo eternamente sospeso e insieme inesorabile, le contorsioni morali del protagonista, che peraltro Ceylan non giudica mai, nemmeno un istante. Sono 197 minuti, e non ce n’è uno di troppo.

 

RACCONTO DI DUE STAGIONI
di Nuri Bilge Ceylan
Turchia-Francia-Germania, 197’