Putin, Erdogan, Trump, Modi, Maduro, Le Pen. Leader autoritari che godono del consenso elettorale. Il fenomeno è in crescita e si allarga anche a Paesi di consolidata tradizione liberale. Un pericolo per la democrazia che nessuno sa come fermare

Un quarto di secolo se n’è quasi andato e il democratore non è mai stato meglio. Quando L’Espresso, alla fine del 2016, usava questa parola per indicare un dittatore democraticamente eletto, i nomi citati erano quelli di Donald Trump, Vladimir Putin, Narendra Modi, Marine Le Pen, Benjamin Netanyahu, Recep Tayyip Erdoğan, Nigel Farage, Rodrigo Duterte. Otto anni dopo sono tutti in grande spolvero con l’eccezione del presidente filippino, sostituito dalla figlia Rosa Duterte alla vicepresidenza ma intenzionato a ricandidarsi a 83 anni nel 2028 dopo la pausa di ineleggibilità dei due mandati consecutivi. Il suo concorrente è l’attuale presidente Ferdinand Marcos junior, figlio dell’ex dittatore dell’arcipelago e di Imelda, la donna dalle tremila paia di scarpe. Cose che capitano in località esotiche e distanti? La consolazione è fuori bersaglio. Appena oltre il confine italo-francese di Mentone, Le Pen ha costretto il presidente Emmanuel Macron sulla difensiva dopo la vittoria schiacciante alle Europee di giugno del suo pupillo Jordan Bardella, non del tutto confermata dalle elezioni legislative anticipate. Le consultazioni tenute nel Regno Unito lo scorso 4 luglio, stravinte dal Labour contro i conservatori, hanno segnato il debutto in Parlamento di Nigel Farage, ex fondatore del partito di ultradestra Ukip, poi del Brexit Party e infine del Reform Party, che Farage aveva lasciato al suo delfino Richard Tice salvo ripensarci e tornare in scena come un Cincinnato invocato dalla plebe. Che la plebe sia stata messa in ginocchio proprio dalle conseguenze economiche della Brexit pare ininfluente. L’elettore ha una memoria intermittente e i grandi populisti lo sanno. 

 

La memoria intermittente dell’elettore
Così negli Stati Uniti che vanno verso le Presidenziali, il secondo tentativo di Trump non sembra pregiudicato dall’assalto a Capitol Hill, sede del Parlamento Usa, il 6 gennaio 2021, che The Donald ha prima criticato e poi lodato rischiando l’ineleggibilità fino alla sentenza salvifica, lo scorso marzo, di una Corte Suprema in parte nominata dallo stesso Trump durante il suo mandato alla Casa Bianca. Se rivincerà a distanza di otto anni, l’immobiliarista newyorkese promette di mettere fine alla guerra in Europa orientale che vede protagonista un amico di vecchia data. Putin si è sentito abbastanza forte sul fronte interno da invadere l’Ucraina il 24 febbraio 2022. Il voto del 17 marzo 2024 lo ha premiato con l’88,48 per cento delle preferenze e un’affluenza al 77,5 per cento che le maggiori democrazie liberali si sognano. Anche la morte definita improvvisa dell’oppositore Aleksej Naval’nyj il 16 febbraio in una colonia penale del circolo polare artico non ha intaccato la popolarità dell’ex agente segreto del Kgb in carica dal marzo 2000 quando fu eletto per la prima volta con il 53 per cento. Putin ha un mandato fino al 2030 e, grazie alla riforma costituzionale, potrà governare almeno fino al 2036, quando avrà 84 anni. 

 

Il potere di Erdoğan e il declino delle democrazie
Una vittoria di Trump farà piacere anche a Netanyahu. Il leader israeliano è stato più volte criticato dal presidente Usa in carica Joseph Biden per la gestione del fronte bellico dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. La guerra di Gaza ha puntellato la maggioranza di centrodestra in crisi con un governo di coalizione sostenuto dall’avversario di Bibi, il generale Benny Gantz. L’ex capo di stato maggiore è uscito dall’esecutivo a giugno in polemica con il primo ministro e chiedendo elezioni anticipate. Il mosaico dei democratori della porta accanto, o quasi, si completa con Erdoğan. Il leader conservatore turco alla guida del partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) è al potere dal 2003, inizialmente da primo ministro e poi come presidente. A giugno del 2023 ha conquistato il terzo mandato con il 52 per cento al ballottaggio. Il 15 luglio 2016 Erdoğan ha sventato un colpo di Stato che gli oppositori del partito kemalista Chp hanno definito una messinscena. Il presunto golpe ha aperto la strada a un referendum costituzionale che il 16 aprile ha approvato l’abolizione del primo ministro e il passaggio al presidenzialismo. La Turchia in crisi finanziaria profonda ha una posizione centrale sullo scacchiere euro-asiatico. Il Paese è membro della Nato ed è stato candidato all’ingresso nell’Ue. È stato decisivo nella distruzione militare dell’Isis e ha buone relazioni con la Russia che, a sua volta, mantiene rapporti stretti con le ex repubbliche turcofone dell’Urss (Azerbaigian, Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan), rette da altri democratori. Una serie di leggi anti-opposizione ha aiutato Erdoğan a conservare il potere. 

 

Sfide politiche e l'erosione della democrazia
Nato a Istanbul ed ex calciatore del club di prima serie Kasımpaşa Spor Kulübü, che gli ha intitolato lo stadio nel distretto europeo alla moda di Beyoğlu, il leader dell’Akp ha trovato il suo nuovo avversario proprio nel sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoğlu del Chp, confermato alle amministrative dello scorso marzo dove il partito di governo è stato sconfitto nelle grandi città. Imamoğlu è stato condannato a due anni in primo grado per ingiurie al supremo consiglio elettorale della Turchia e, dopo esserne uscito indenne, è di nuovo sotto processo per questioni di appalti. Non è detto che resista alla pressione giudiziaria fino alle prossime elezioni presidenziali del 2028. Potrebbe non tenere la democrazia stessa, che mostra segni di ritirata globale. La zona di erosione segue spesso la via delle riforme costituzionali verso il presidenzialismo e contro il parlamentarismo oppure con la subordinazione della magistratura al controllo dell’esecutivo. In Ungheria la riforma in vigore dal 2012 ha modificato i limiti del potere giudiziario e lo scorso febbraio anche la Slovacchia del conservatore Robert Fico è intervenuta sui giudici. L’Italia guidata da Giorgia Meloni, dopo l’approvazione contestatissima dell’Autonomia differenziata, marcia verso il premierato indifferente all’allarme dei costituzionalisti e delle opposizioni. Riforma non significa necessariamente sovversione de facto dell’ordine costituito, ma nel Paese che ha inventato il fascismo una misura di cautela aggiuntiva è il minimo sindacale. Nel bene e nel male le tradizioni storiche contano. La Francia è abitualmente scontenta dei suoi assetti istituzionali. Dal 1792 ha avuto cinque repubbliche, un impero, una monarchia ereditaria di ritorno. Una sesta repubblica è invocata da più parti, per esempio da Jean-Luc Mélenchon nella sua candidatura alle Presidenziali del 2022 con il movimento di sinistra de La France Insoumise. La fenomenologia del democratore è ampia, con versioni varie e legate al contesto locale. C’è chi si arma di omofobia e razzismo. C’è chi attacca l’establishment politico tradizionale dominato da burocrati ostili al cittadino comune. Altri ingredienti del cocktail sono la lotta alla globalizzazione e alle organizzazioni internazionali come Ue o Onu, la passione per il decisionismo possibilmente armato, la lotta senza quartiere al crimine, sbandierata o tragicamente reale come la campagna contro i trafficanti di droga condotta nelle Filippine con gli squadroni della morte che hanno procurato all’ex presidente Duterte le inchieste della Corte penale internazionale (Cpi) e del Parlamento nazionale. 

 

Nazionalismo e repressione
Il nazionalismo su base etnico-religiosa è la caratteristica dominante della più popolosa democrazia del mondo. Lo scorso giugno 1,4 miliardi di indiani hanno eletto per la terza volta Modi. Il leader del Bharatiya Janata Party (Bjp), in carica come primo ministro dal 2014, ha ottenuto il 44,2 per cento dei consensi, più del doppio dei rivali dell’India National Congress (Inc) di Raul Gandhi. I commentatori l’hanno de scritta come una sconfitta rispetto alle due precedenti consultazioni. Fatto sta che il premier indiano, figlio di un venditore di tè di bassa casta e con un passato nell’estremismo indù, potrà continuare sulla strada dell’approvazione di leggi repressive. Le più recenti, a partire dal 2023, includono l’aumento della custodia cautelare, le intercettazioni facili e norme discriminatorie verso la minoranza musulmana. Il caso Modi insegna che la caratteristica dominante del democratore è di essere homo novus, il termine che nell’antica Roma designava gli emergenti arrivati agli incarichi senatoriali. Senza andare indietro di millenni, un secolo fa un maestro di scuola romagnolo trionfava alle elezioni del 6 aprile 1924 guidando la Lista Nazionale. La coalizione di Benito Mussolini, presidente del Consiglio dopo la marcia su Roma dell’ottobre 1922, conquistava il 64,9 per cento e chiudeva le urne per i successivi ventiquattro anni, fino al referendum monarchia-Repubblica del 2 giugno 1946. Sulla scia del duce, il 5 marzo 1933 un pittore austriaco di scarso successo, Adolf Hitler, conquistava la maggioranza con un 43,9 per cento che sarebbe stato superato da un eventuale campo largo degli avversari. Il 22 marzo 1933, con l’approvazione del decreto «pieni poteri», iniziava ufficialmente il Terzo Reich. La tragedia immane della Seconda Guerra Mondiale spiega solo in parte la marginalizzazione della figura dittatoriale. Il democratore moderno evita di trasformarsi in un autocrate tout court come Mussolini o Hitler perché democrazia significa presentabilità verso le istituzioni finanziarie occidentali che spesso garantiscono la sopravvivenza di un Paese in crisi economica, terreno di coltura ideale per la deriva autoritaria. Con una leadership finanziaria ancora in mano agli Usa la certificazione democratica, per quanto traballante, facilita l’arrivo del denaro. Ne sanno qualcosa gli argentini che hanno eletto Javier Milei, sostenitore della dollarizzazione, e i venezuelani dopo che Nicolás Maduro è finito in default con i bond statali ridotti a carta straccia. Le dure condizioni di vita del Paese sudamericano si sono riflesse nelle elezioni di fine luglio 2024, quando Maduro è stato confermato di stretta misura e con denunce di brogli dall’opposizione. Ma non sempre si può colpire il democratore nel portafoglio. Le sanzioni alla Russia hanno avuto risultati modesti. In Italia, le tensioni con l’Egitto di Ab del Fattah al-Sisi per l’omicidio di Giulio Regeni non hanno disturbato lo scambio commerciale. Con i democratori si fanno buoni affari.