Duecentomila profughi mai tornati a casa. Un reattore che può crollare alla prima scossa rilasciando radioattività. Risarcimenti negati. E bugie del governo. Viaggio nei luoghi dell'incidente, due anni dopo

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Noi giapponesi non ci arrendiamo mai. Sopportiamo e superiamo tutto: terremoti, tsunami, malasorte e malgoverno. Alla fine tutto passa ma il Giappone resta. ParlaYoshiaki Sasaki, imprenditore del pesce a Miyako, una delle città più colpite dallo tsunami dell'11 marzo 2011. Nel giro di due anni ha rimesso in piedi casa e azienda ampliando il business e assumendo 15 persone nuove. «Non avrei dato a mio figlio Hiroki il permesso di sposarsi, se non credessi nel futuro del Paese. Ora aspetto il primo nipotino». Sasaki ha ragione: nessun altro paese al mondo sarebbe riuscito a rialzarsi così in fretta. Il fronte colpito dallo tsunami, che ha provocato oltre 20 mila morti e centinaia di migliaia di senzatetto, è stato completamente ripulito ed è ora un enorme cantiere a cielo aperto, dove migliaia di uomini e di mezzi lavorano incessantemente, 24 ore su 24, alla ricostruzione. Governo, autorità locali e cittadini, pur tra mille problemi e tensioni, sembrano marciare in simbiosi, affrontando e risolvendo ogni ostacolo "armoniosamente", attraverso incontri pubblici ai quali la gente partecipa numerosa ed in modo costruttivo. Il tutto aiutato dai generosi stanziamenti approvati dal nuovo governo conservatore di Shinzo Abe, che ha abbandonato senza indugi la politica di risanamento e di rigore finanziario adottata dal partito democratico nei pochi anni in cui ha dato vita alla sua fallimentare esperienza di governo, rilanciando la spesa pubblica attraverso l'emissione di nuovi titoli di Stato. Risultato: aumento del deficit (che al 240 per cento era già il più alto del mondo industrializzato) ma netta ripresa dell'economia. «Il paese è ripartito», assicura Jasper Koll, analista finanziario, «e non parlo solo dal punto di vista economico. Nella gente, e nelle imprese, sono tornati fiducia e ottimismo».

Il Giappone è ripartito. Ma nel frattempo, forse per la prima volta nella sua millenaria storia, ha perso un pezzo. Fukushima. Mentre le tragedie di Hiroshima e Nagasaki riuscirono a unire ancor di più il popolo, l'incidente di Fukushima, innescato sì da un disastro naturale (prevedibile) ma poi cresciuto, oramai è provato, per colpa di errori, omissioni e avide ricerche di profitto, lo ha per la prima volta diviso. Basta andare a Fukushima per capire che questo, oramai, è un altro Giappone. Il Giappone della menzogna, della furberia, della disperazione. E della sconfitta. Di Fukushima, non se ne parla quasi più. Tutto finito, o, almeno, tutto «sotto controllo» dicono le autorità. Ma mentono. In occasione del secondo anniversario del più grave incidente nucleare della storia dopo Cernobyl, il "villaggio nucleare" (l'insieme di autorità, gestori e fornitori che gestisce il business dell'atomo)si è scatenato. E mentre in Giappone la Tepco, la società che gestisce la centrale di Fukushima, appena nazionalizzata e quindi protetta da ogni rischio di fallimento, continua da un lato ad imporre la sordina ai media nazionali minacciando di tagliare gli investimenti pubblicitari e dall'altro organizza poco convincenti e controllati tour promozionali per la stampa straniera, a livello internazionale sia l'Aiea, l'Agenzia per l'energia atomica sia addirittura la Who (Organizzazione mondiale della sanità) cercano di rassicurare l'opinione pubblica e prepararla al grande rilancio del nucleare. «A Fukushima rischio cancro irrisorio», si legge in un recente comunicato. «Molto più pericoloso iniziare a fumare che vivere nei pressi della centrale». E anche se il governo di Shinzo Abe si è preso del tempo prima di decidere se abbandonare o meno il blocco delle centrali e l'uscita dal nucleare decisa dal governo precedente o invece rilanciareil settore, sul dramma degli evacuati è sceso il silenzio.

«È in atto una vera e propria operazione concertata tra governo, mass media e industria nucleare», si legge nel circostanziato rapporto che Greenpeace ha appena pubblicato, «che attraverso una campagna di falsificazione, manipolazione e omissione di informazioni mira a negare l'assunzione delle responsabilità, procrastinare e complicare la questione dei risarcimenti e al tempo stesso preparare il grande rilancio di un settore che in Giappone come altrove ha ripetutamente dimostrato di non essere né sicuro né conveniente». La legge, in caso di disastro, protegge le imprese fornitrici (nello specifico General Electric, Westinghouse, ma anche Mitsubishi, Hitachi e Toshiba) da ogni richiesta di risarcimento, e la società che gestisce l'impianto, l'unica chiamata per legge a rispondere dei danni, è stata nazionalizzata. «Il risultato è che alla fine sarà lo Stato, e dunque i cittadini, ad accollarsi i costi». L'emergenza nucleare è tutt'altro che archiviata, basterebbe una nuova scossa di terremoto di intensità anche molto minore di quella dell'11 marzo 2011 per provocare il crollo della "piscina" del reattore n.4, contenente migliaia di barre di carburante altamente radiattivo. E la situazione di almeno 200 mila evacuati sta diventando drammatica. A due anni dall'incidente nessuno ha ricevuto adeguato indennizzo. «Ci vorranno anni e anni di pazienza e lotta in tribunale», spiega Yoichi Kaido, presidente dell'ordine forense di Tokyo. «L'ammontare dei risarcimenti è tale che nemmeno lo Stato può garantirli». L'avvocato Kaido, assieme ad una schiera di giovani colleghi, ha iniziato una class action collettiva: «Alla fine probabilmente vinceremo ma ci vorrà tempo. La maggior parte degli evacuati sono vecchi o intere famglie. La Tepco spera che i primi muoiano, e le seconde, pur di rifarsi una vita altrove, accettino la loro elemosina».

Una serie di ong e di associazioni hanno istituito dei fondi collettivi di solidarietà, alcuni dei quali finanziati dalle potenti cooperative di contadini e pescatori. Stando a quanto sostiene la Tepco (dati quindi da prendere con le pinze, visto che ben tre commissioni parlamentari hanno provato la capacità di mentire, omettere e manipolare da parte dei dirigenti) tutti gli evacuati che ne abbiano fatto richiesta hanno sin qui ricevuto almeno 2 milioni di yen (circa 20 mila euro). A tutti è stato inoltre fornito, dopo alcuni mesi passati nei centri di accoglienza, un alloggio «adeguato». Ma si tratta di anticipi, coperture di spese per cifre irrisorie rispetto a quanto perduto.

La Tepco sei mesi dopo l'incidente aveva spedito oltre 100 mila questionari da riempire. Settanta pagine piene di domande e di richieste di informazioni. Ne sono tornate indietro meno di 20 mila. È dovuto intervenire il governo per obbligare l'azienda a reinviarlo semplificato. L'ultima versione è di una decina di pagine, ma continua a contenere richieste assurde. Come quella, per tutti coloro che chiedono il rimborso delle spese sostenute, di accludere tutti gli scontrini e le ricevute originali. «Io li ho mandati a quel paese», racconta Yoshiaki Yoshida, piccolo imprenditore. «Ma ti pare che uno che scappa dalla pioggia radioattiva ha il tempo e la voglia di chiedere lo scontrino al benzinaio? Ho restituito il formulario in bianco, firmando col mio nome e chiedendo di non essere più importunato. Ci vedremo in tribunale, ho scritto. Spero di riuscire a ridurre sul lastrico i dirigenti, devono vedersi sequestrati i beni personali. Morire in povertà». Ovviamente non sarà così. I dirigenti Tepco, dopo aver ricevute laute liquidazioni, hanno già trovato nuove comode poltrone, alcuni addirittura nei consigli di amministrazione delle imprese fornitrici. I conti, alla fine li pagheranno i cittadini attraverso l'aumento delle bollette, già cresciute del 20 per cento (solo per le utenze industriali, per il momento) ed in genere le tasse.