Gli omaggi a Verdi e Wagner, l'autobiografia musicale di uto Ughi, i titani del Novecento raccontati da Bortolotto e Rattalino. Le nostre scelte di lettura per melomani

Una raccolta degli scritti di Mario Bortolotto con un titolo ispirato dal quotidiano dove sono apparsi e dall'opera di Schumann "Bunte Blätter", ovvero "Fogli multicolori" (Adelphi), è l'occasione per una serie di divertenti e ironici ritratti: si va dall'amato e odiato Schoenberg, del quale si ammirano le capacità teoretiche, ma che ci ha lasciato alcune opere insopportabili (soprattutto quelle del periodo americano) a un Haendel gigante di stile e noia che, citando Stravinskij, «quando un pezzo comincia con un soggetto cromatico più interessante, fa costantemente a meno di svilupparlo e di sfruttarlo»; da un Ravel in cui la bravura mimetica, la difesa di sé e della musica attraverso lo schermo e la trasmutazione, possono arrivare all'inverosimile, a un Debussy pervaso dalla cultura letteraria del suo tempo, fra Baudelaire e Mallarmé e gli antichi maestri Charles d'Orleans e Villon. Indimenticabile la ferrigna caricatura di un Henze samurai borghese, modellatore di una tradizione che conosce minutamente, «resa affatto nuova in un contesto dei più complessi».

La vita del compositore Dmitrij Sciostakovic ben rappresenta la parabola della Russia novecentesca: nato in una famiglia di intellettuali ai tempi dello zar, formatosi musicalmente negli anni della Rivoluzione d'Ottobre, esibito come un degno rappresentante della cultura socialista, ottenendo cinque premi Stalin. Ma allo stesso tempo alcune sue opere parvero troppo cerebrali, armonicamente ardite, agli occhi di un regime che forniva precise direttive su cosa fosse l'arte. La vita e l'opera del compositore è raccontata nel nuovo libro di Piero Rattalino, "Sciostakovic" (Zecchini). Vi si comprende come i suoi riferimenti furono sempre la tradizione e la cultura russa, filtrate dalla propria visione d'un mondo attraversato da mille conflitti e contraddizioni. Le lettere private di Sciostakovic, l'analisi delle interviste nelle sue uscite occidentali fanno pensare, diversamente da quanto teorizzato da Volkov Solomon, a una consapevole adesione nei confronti dell'ideologia comunista.

Il grande violinista Uto Ughi dimostra un'insospettabile vena letteraria con "Quel diavolo di un trillo" (Einaudi). Il libro non si limita a ripercorrere l'apprendistato del musicista, le lezioni con George Enescu, i concerti tenuti in tutto il mondo, i sodalizi artistici con alcuni dei più grandi interpreti degli ultimi cinquant'anni. Ci racconta di quanto la musica debba alla letteratura, attraverso i grandi scrittori: da Borges, che ha avuto la fortuna di conoscere personalmente, a Neruda, Zweig e Buzzati. E i viaggi attraverso i luoghi del mito, la natura e il silenzio spesso anelato come rifugio. Con polemiche riflessioni sulla qualità della musica eseguita in chiesa, considerata luogo ideale per interpretare le musiche di Palestrina, Bach e Bruckner, ma dove oggi «durante la messa si odono suoni di chitarra, ritmi di infimo ordine, cori di ragazzi con evidenti problemi di intonazione e, quel che è peggio, testi adattati su melodie tratte anche da film non proprio consoni all'ambiente religioso».

Un libro per celebrare il bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi, attraverso le voci di venti tra i massimi protagonisti della musica e dello spettacolo del nostro tempo, è il recente lavoro della giornalista di "Repubblica" Leonetta Bentivoglio. "Il mio Verdi" (Castelvecchi), contiene venti conversazioni per tratteggiare l'incontro professionale e affettivo di musicisti, registi e cantanti con il Maestro di Busseto: una raccolta che tratta delle opere e dei personaggi più famosi attraverso uno sguardo d'autore che va dall'atteggiamento comprensivo di Zeffirelli per la vistosa ma funzionale retorica di certi libretti, all'entusiasmo di Pavarotti per il rapporto fra Verdi e le voci («Lui non è mai uno scassavoci. Più si canta come ha scritto lui, meglio si canta»), passando attraverso la simpatia di Sinopoli per "La forza del destino", opera vista come laica e addirittura denigratoria nei confronti della religione. E poi, fra gli altri, Herzog, Ronconi, la Gencer, Muti, Chailly, Mehta, la Freni e Daniele Gatti.

Un Baedeker per il visionario mondo della Tetralogia wagneriana: è questa, in definitiva, la funzione assolta da "L'inizio e la fine del mondo" (ilSaggiatore) scritto da Gaston Fournier-Facio, coordinatore artistico del Teatro alla Scala, e Alessandro Gamba, professore di Storia della filosofia all'Università Cattolica. L'approccio ideale sarebbe quello di andare nelle prossime settimane a Bayreuth per godersi l'intero arco delle quattro "giornate-opera". Ma per chi non può farlo, ecco una guida utile e intelligente: grazie alla tecnologia telematica vi si possono ascoltare in streaming alcuni brani nella versione del direttore Marek Janowski, per un totale di tre ore di musica. Oltre ai soggetti e ai libretti, nella traduzione in italiano curata da Franco Serpa per la Scala, ci sono le fonti ispiratrici di Wagner e una bibliografia ben ponderata. Perché, sotto l'apparenza di una favola di nani ed eroi, dèi e valchirie, si cela la parabola del potere e dell'amore che dominano e scardinano la società.