Inchiesta

Ora in Emilia la 'ndrangheta punta ai politici

di Giovanni TIzian   28 gennaio 2015

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Nell'ex regione rossa le cosche hanno messo radici. E ora vogliono influenzare la politica nazionale. Dalla processione di Delrio ?al pranzo con Tosi

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Adesso che la nebbia si dirada, le immagini diventano nitide. E i sospetti, quelli che “l’Espresso” denuncia da tre anni, si trasformano in provvedimenti giudiziari. Perché la mafia calabrese in Emilia Romagna è una vera potenza, capace di condizionare la vita politica ed economica della regione. Gettando le basi per un’avanzata che si è spinta ancora più a nord, cercando di abbracciare le figure più importanti. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio che da sindaco di Reggio Emilia va in campagna elettorale nel feudo crotonese del padrino.

Emilia
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Il sindaco leghista di Verona Flavio Tosi che si siede a tavola con gli emissari della cosca. E ben quattro competizioni elettorali condizionate in soli sette anni a Parma e provincia. Un quadro desolante. Ci sono imprenditori padani che si sentono più forti se protetti dai picciotti calabresi, il clan che fa da banca per il territorio, le mani sulla ricostruzione post terremoto. Le manovre di una autonoma ‘ndrangheta emiliana, che ha impiantato una cellula tra Modena e Piacenza. Una sorte di sede “delocalizzata” della famiglia Grande Aracri di Cutro, tra le più ricche e impunite, che sa essere violenta e spietata quando serve e allo stesso tempo ha dimostrato di avere spiccate doti manageriali e politiche nel sfruttare le occasioni di business.

Crimine
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 Il profilo è disegnato nelle migliaia di pagine e intercettazioni che hanno portato all’arresto di oltre cento persone e al sequestro di beni per decine di milioni. La retata scattata all’alba di mercoledì 28 gennaio è il frutto di tre anni di lavoro dei militari dell’Arma del comando provinciale di Modena, Reggio Emilia, Parma e della Direzione investigativa bolognese coordinati dal procuratore capo di Bologna Roberto Alfonso, dal pm Marco Mescolini di Modena e dal sostituto della Direzione nazionale antimafia Roberto Pennisi. Un’indagine, secondo gli investigatori che ne hanno seguito passo passo l’evoluzione, destinata a cambiare la percezione della presenza mafiosa nella terra rossa, che non ha saputo però resistere ai quattrini dei padrini calabresi. Uomini di potere che gestiscono una holding criminale composta da almeno seicento tra picciotti, militari e manager, tra la Calabria e l’Emilia. Con un patrimonio societario e immobiliare che fattura milioni di euro: un «valore aggiunto» per gli imprenditori locali.

A PRANZO CON TOSI
«Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna». La “mangiata” è descritta nei particolari da Antonio Gualtieri, la mente imprenditoriale, secondo gli investigatori, del clan Grande Aracri. E mentre racconta e si vanta delle sue amicizie importanti, le cimici registrano. Il personaggio, calabrese di nascita, è ormai un padano doc, tanto da riuscire a inserirsi nei salotti che contano. A Bologna così come a Verona.

Mafia
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Tra le sue amicizie c’è l’industriale veronese Moreno Nicolis, molto vicino al sindaco Flavio Tosi e all’ex vice sindaco Vito Giacino che ha lasciato la poltrona per una storia di corruzione. Ora Gualtieri è dentro per associazione mafiosa. E Nicolis, che più di un anno fa è stato interrogato dall’antimafia, è coinvolto nell’indagine. Insieme avevano in ballo una speculazione edilizia di diversi milioni di euro. Un progetto che aveva bisogno però dei giusti appoggi politici. Per questo il veronese che di mestiere fa l’imprenditore dell’acciaio crea il link con l’amministrazione leghista. L’affare da 64 milioni di euro è l’acquisizione dei beni della Rizzi Costruzioni, una grande azienda fallita il cui procedimento pendeva al tribunale di Verona. Ebbene, per concludere l’ambizioso investimento la coppia Gualtieri-Nicolis mette in campo una squadra di professionisti, cerca agganci, si spende tantissimo. Sono forti della copertura del grande capo, Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”.

Il boss dei boss dell’Emilia che segue la vicenda con dedizione. Tanto che gli investigatori sono riusciti a ricostruire un incontro fondamentale per le indagini che si è tenuto a Cutro tra “Manuzza”, Gualtieri e Nicolis. L’occasione per un pranzo tipico calabrese, per impartire alcune direttive e anche per mettere a punto l’affare del ferro che stava tanto a cuore al padrino e a Nicolis. Già, perché in questa vicenda c’entra pure un altro business, forse il più importante per il gruppo. L’azienda veronese avrebbe dovuto rifornire la cosca del materiale necessario alla realizzazione dei parchi eolici che stavano nascendo come funghi in provincia di Crotone. E che non sono esenti dalle interferenze dei clan.

L’industriale di Verona, secondo i detective dell’Arma, è in stretto rapporto con il sindaco Tosi e con l’allora vicesindaco Giacino (che rivestiva in quel periodo anche l’incarico di assessore all’Urbanistica), così «riesce a manovrare degli affari e a conoscere – in anticipo - eventuali orientamenti su alcune aree cittadine, in relazione all’edificabilità o meno». Insomma Nicolis è per la ‘ndrangheta emiliana una risorsa, un pezzo pregiato del suo capitale sociale. E Gualtieri, che il suo mestiere lo sa fare, non spreca occasione per mostrarsi entusiasta dei nuovi amici veronesi. Per questo raccomanda all’amico Moreno di salutargli Giacino «con un bacino». Che Tosi e Giacino - contro i quali non sono state formulate ipotesi di reato - abbiano pranzato con il gli emissari di Grande Aracri lo conferma un’altra indagata, la professionista bolognese Roberta Tattini (ex funzionaria del Banco Emiliano Romagnolo) che ha curato, secondo l’accusa, gli interessi della cosca: dopo aver trattato «l’affare della vita», spiega alla madre, si sono recati a pranzo «dove era presente il sindaco Tosi e altra gente».

A maggio 2013 l’affare Rizzi viene accantonato. Nicolino Grande Aracri aveva iniziato a dubitare del suo braccio economico Gualtieri, il quale, visto l’andazzo, si fa da parte e regala alle microspie dei carabinieri continui sfoghi. «Lui dispone di 500 uomini, penso che una novantina ce li ha in carcere», così spiega all’industriale la potenza del suo capo. E di sé stesso, che rappresenta il clan in Emilia, dice: «Io dispongo di 150 uomini». Questi dialoghi, degni di un copione di Martin Scorsese, per gli inquirenti non lasciano spazio ad alcun dubbio sulla consapevolezza dell’imprenditore veneto di stare trattando con affiliati alla mafia calabrese.

DALLA PROCESSIONE AI VOTI CONTROLLATI
Quando sei anni fa l’allora sindaco di Reggio Emilia, attuale braccio destro del premier Matteo Renzi, decise di partecipare alla processione del Santissimo crocifisso nel feudo calabrese dei Grande Aracri, non poteva immaginare le conseguenze e le polemiche che ne sarebbero scaturite. E il pool di pm che hanno condotto l’indagine non ha lesinato critiche al comportamento di Graziano Delrio.

[[ge:espresso:attualita:1.190026:article:https://espresso.repubblica.it/attualita/2014/12/02/news/dall-astensione-alla-ndrangheta-quant-e-malata-l-emilia-1.190026]]Lui non è indagato, ma la procura non gli perdona quell’ingenuità: poteva, e doveva, evitare la processione a Cutro durante la campagna elettorale per l’elezione del sindaco di Reggio Emilia del 2009. Su questo episodio, tre anni dopo, i pm l’hanno sentito come persona informata dei fatti. E lui si è giustificato spiegando che ha dovuto farlo perché Cutro e Reggio Emilia sono gemellati. Quindi, sostiene del Delrio, che l’evento coincidesse con il voto è puramente un caso. L’atteggiamento però non piaciuto ai magistrati: un amministratore pubblico, secondo gli inquirenti, non può sottovalutare certe azioni dal forte valore simbolico per chi detiene il potere criminale su un territorio. Certo Delrio non era solo in quella processione. C’erano pure gli altri candidati. Nessuno di loro però sembra essersi reso conto del peso politico di quel pellegrinaggio.

A Cutro quel giorno era presente Domenico Olivo, consigliere comunale Pd molto legato all’allora sindaco Delrio che secondo fonti de “l’Espresso” ha frequentato alcuni uomini di Nicolino Grande Aracri. E tra le persone vicine al primo cittadino viene citata Maria Sergio, ex dirigente del settore urbanistica del Comune di Reggio Emilia e moglie dell’attuale sindaco democratico Luca Vecchi. I pm l’hanno sentita come teste perché alcuni rapporti di polizia ipotizzano situazioni di favore verso imprenditori sospettati di vicinanza alla ‘ndrina emiliana. Ma nella città le ombre più cupe si sono addensate sul centrodestra: il primo politico arrestato per concorso esterno in Emilia si chiama Giuseppe Pagliani di Forza Italia, primo dei non eletti alle ultime regionali.

RICOSTRUZIONE E CLAN
Se per entrare nei cantieri dell’Aquila le aziende mafiose sono dovute emigrare in Abruzzo, in Emilia non hanno avuto bisogno di traslochi. Per un semplice motivo: qui hanno sede centinaia di società che fanno capo alla ‘ndrangheta. Così il sisma che ha colpito la regione è diventato uno dei business finito in mano del clan. Per rimettere in sesto i centri storici sfigurati dalle scosse del maggio di tre anni fa, la macchina della ricostruzione si è messa subito in moto.

A rimuovere le macerie sono stati spesso ditte legate alla ‘ndrangheta. I clan di riferimento sempre quelli: oltre ai Grande Aracri, anche la famiglia Arena è stata coinvolta nell’ultima istruttoria. Se finora il contrasto è stato di tipo amministrativo, utilizzando lo strumento delle interdittive antimafia, questa inchiesta mette nero su bianco le complicità e travolge una storica azienda modenese. La Bianchini Costruzioni srl infatti è un marchio di garanzia. Almeno lo era. Ha lavorato per enti pubblici, privati, ha realizzato strade, ha messo in sicurezza un bel pezzo dell’Emilia riuscendo perfino a inserirsi nell’Expo di Milano. Tutto sembrava filare liscio fino a quando la prefettura stoppa la società, sospettata di legami con i Grande Aracri. I detective già hanno raccolto più elementi inquietanti. Uno in particolare: che ci fa tra i dipendenti il genero del boss Nicolino Grande Aracri?

La società è costretta quindi a lasciare i cantieri e cerca sponde politiche. Il primo a schierarsi dalla sua parte è il senatore Carlo Giovanardi. Contesta la decisione del prefetto e l’attività del Girer, il gruppo investigativo sul dopo sisma: «Così uccidono l’economia emiliana». E via con interrogazioni, accuse, richieste al ministero dell’Interno. Ora però l’impresa è finita nell’inchiesta antimafia più importante mai fatta in Emilia. Bianchini, secondo i carabinieri, avrebbe permesso al clan di inserirsi nella ricostruzione e in altri appalti. Inoltre avrebbe ottenuto vantaggi economici attraverso false fatturazioni con ditte della cosca. Per questo gli inquirenti riferendosi al suo caso parlano della ‘ndrangheta come «valore aggiunto per alcuni imprenditori da sfruttare per l’accrescimento delle proprie possibilità di guadagno». E aggiungono: «il fatto di essere un imprenditore rispettato e conosciuto, hanno fatto dell’impresa la sponda ideale per agevolare gli interessi dell’associazione criminale, soprattutto in considerazione degli acclarati “rapporti privilegiati” con alcuni amministratori locali dei comuni del cratere sismico». Ma quanti altri rispettabili imprenditori si sono fatti tentare dai vantaggi offerti dalla cosca emiliana?