Grazie alla liquidità delle banche centrali nei listini fioccano record e scalate. Eppure gli industriali italiani continuano a non volersi aprire agli investitori. Ecco i motivi di una rinuncia che costa moltissimo

AGFEDITORIAL-632387-pr-jpg
Il rally della Borsa Italiana continuerà, dopo qualche frenatina primaverile, oppure sta per scoppiare la bolla, siamo cioè alla vigilia di un brusco arretramento delle quotazioni? È il classico dilemma vissuto da chi investe in azioni e, guardandosi intorno, trova immediatamente segnali d’euforia che qualcuno legge come avvertimenti: burrasca in arrivo.

Il basso costo del denaro e le robuste iniezioni di liquidità sparate nel sistema finanziario dalle banche centrali, prima negli Stati Uniti e da qualche settimana in Europa, hanno fornito le munizioni per maxi-acquisizioni come quella di Shell e Facebook, che hanno speso rispettivamente 70 e 19 miliardi di dollari per comprarsi il BG Group e WhatsApp.

Il Nasdaq, il mercato americano specializzato nell’hi-tech, giovedì 23 aprile è tornato sopra i massimi di 15 anni fa, le Borse europee, come si vede dal grafico di queste pagine, sono risalite dov’erano prima del crac del 2008. E anche Piazza degli Affari, pur lontana in termini di capitalizzazione (il controvalore totale delle azioni quotate) dagli 800 miliardi del boom di Internet, a cavallo tra il 2000 e il 2001, ha il vento in poppa. Da inizio 2015, l’indice Ftse Mib è uno dei più pimpanti al mondo, con un più 20 per cento abbondante in meno di quattro mesi.

È normale quindi che gli addetti ai lavori - e i risparmiatori più avveduti - si chiedano se scendere dal treno o stare a bordo. A non essere normale è invece, storicamente, l’intreccio tra Borsa italiana ed economia nazionale: non a caso, il rapporto tra capitalizzazione e Prodotto interno lordo è tra i più bassi nei Paesi industrializzati. A fine 2014 Piazza degli Affari “valeva” meno del 30 per cento del Pil nazionale, lontanissima da realtà come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, dove il rapporto sta ben sopra quota 100, e distante pure da nazioni maggiormente confrontabili, come Francia, Germania e Spagna.
[[ge:rep-locali:espresso:285152883]]
Il mercato azionario tricolore è piccolo, con poche società quotate, scambi concentrati su una manciata di titoli, e abbastanza snobbato dagli investitori istituzionali domestici, tipo fondi comuni e fondi pensione. Qualcosina s’è mosso, complice la risalita dei corsi, e nell’ultimo biennio i debutti sul listino hanno superato le uscite di scena (delisting, nel gergo finanziario), dopo che negli ultimi anni roventi della crisi scatenata dal crollo del mutui “subprime” gli addii erano stati più numerosi degli arrivi. Anche se, pure oggi, non mancano gli abbandoni eccellenti: il prossimo, se andrà in porto l’Opa cinese, potrebbe essere quello della Pirelli, quotata fin dal 1926.

Le aziende presenti sul listino milanese erano 328 alla fine del 2011 e 342 alla fine dell’anno scorso. Di corsa a quotarsi, insomma, non si parla proprio, nonostante la sensibile ripresa dei corsi e la chiusura dei rubinetti del credito da parte delle banche. Niente da fare. Il ricorso alla quotazione per raccogliere denari da destinare allo sviluppo del business, invocato da lungo tempo, rimane una scelta residuale.

Secondo le elaborazioni di Deloitte & Touche, tenendo conto solo delle imprese quotate domestiche (escludendo cioè quelle straniere), a dicembre 2014 ce n’erano 295, contro le quasi 600 tedesche e le quasi 500 francesi. Numeri alla mano, «il mercato dei capitali in Italia risulta meno sviluppato rispetto agli altri Paesi dell’euro e questa ridotta dimensione si traduce in un evidente svantaggio competitivo per l’intero sistema economico italiano», certifica Paolo Gibello, presidente di Deloitte & Touche, che sottolinea anche come la Borsa sia fortemente caratterizzata dalla presenza delle imprese del settore finanziario. Il che riduce ancora i flussi di capitali destinati alle aziende produttive.

Il peso preponderante, 66,5 per cento del totale, dei debiti bancari dice chiaro e tondo che i canali alternativi di finanziamento sono piuttosto aridi. Nell’Eurozona, la percentuale è del 50 per cento, mentre negli Usa e nel Regno Unito si scende addirittura intorno al 30. Se poi si fanno i conti in tasca alle piccole e medie imprese, l’ossatura della macchina produttiva tricolore, balza all’occhio il problema della sottocapitalizzazione.

Secondo il Ministero per lo Sviluppo economico, le principali fonti di finanziamento delle Pmi sono i prestiti a medio-lungo termine (36 per cento) e quelli a breve termine (18 per cento). Estremamente bassa la quota del patrimonio, ovvero dei quattrini investiti nell’azienda dai propri proprietari o azionisti, pari al 15 per cento. Peggio sta soltanto la Spagna, con il 13 per cento. Capitalizzatissimi gli inglesi, col 44 per cento, seguiti da tedeschi (28 per cento) e francesi. Di converso la cronica scarsità patrimoniale ha messo le ali alla leva finanziaria, che per le aziende italiane - stando a uno studio della Sda Bocconi - a metà del 2013 era pari al 47,7 per cento, contro il 39,2 per cento del 2005. In poche parole: per cercare ossigeno le imprese italiane continuano a rivolgersi soprattutto alle banche, disdegnando la Borsa.

I FONDI PENSIONE? FINANZIANO GLI STRANIERI
«Tutti gli ultimi governi, e anche la Banca d’Italia, hanno più volte ribadito la necessità di tonificare il mercato dei capitali, e quindi favorire anche lo sbarco delle società in Borsa e gli investimenti in titoli azionari quotati.

Vogliono rendere il sistema imprenditoriale nazionale meno “bancocentrico” e meglio patrimonializzato, eppure quasi tutto ciò che è stato messo in atto, con riferimento ai mercati azionari, a cominciare dalla Tobin Tax, sembra andare nella direzione opposta», lamenta Andrea Vismara, responsabile dell’investment banking di Equita Sim. Che aggiunge: «Osservando la recente risalita di Piazza degli Affari fa tristezza constatare che, di fatto, ben pochi italiani ne abbiano beneficiato», perché l’85-90 per cento dei quattrini investiti in azioni italiane arriva dall’estero. Vismara definisce “scandaloso” il fatto che fondi pensioni ed enti previdenziali siano sottoinvestiti sull’economia tricolore. «Hanno sempre comperato immobili e titoli di Stato, affidando la gestione a qualche player internazionale che alloca gran parte dei soldi oltre confine, mentre queste istituzioni dovrebbero garantire le future pensioni anche sostenendo le imprese nazionali», dice ancora il manager di Equita Sim.

Gli appelli ad allentare la dipendenza delle imprese dalle banche fioccano senza sosta, dal Fondo monetario internazionale alla Banca d’Italia, come detto. Il governatore Ignazio Visco ha stimato in 200 miliardi di euro la carenza di patrimonializzazione. «Ci vorrebbe una fiscalità incentivante per chi investe nelle aziende e ci resta, come accade in Inghilterra; è sbagliato non differenziare la tassazione tra capital-gain e dividendi, trattando come uno speculatore chi le azioni di una società le tiene a lungo: persino gli immobili sono fiscalmente trattati meglio dell’investimento azionario», commenta Vismara.

Alfredo Piacentini, managing partner della società di gestione ginevrina Decalia, punta il dito anche contro gli eccessi burocratici che ostacolano l’accesso in Borsa: «I prospetti informativi previsti dalla normativa italiana sono delle... bibbie. Quello della Moleskine, per esempio, era di 700 pagine. Per la britannica Royal Mail, un gigante mondiale, ne sono bastate 200». Le ragioni per cui il “sciur padrùn” italiano finisce per non quotare la propria azienda sono tante. Il timore di perdere il controllo della propria creatura, o quantomeno di diluirlo; la maggiore trasparenza richiesta alle società quotate, «che confligge con la abituale opacità dei conti delle piccole e medie aziende», denuncia da anni Marco Onado, docente di finanza alla Bocconi e già commissario della Consob; e anche i costi da sostenere, nonostante i tagli degli ultimi anni: il mantenimento dello status di “quotata” può arrivare a costare 3 milioni l’anno.

LA SPERANZA DEI MINI-BOND
L’Italia detiene anche un poco invidiabile primato, quello delle retromarce sulla via di Piazza degli Affari. Sostiene infatti un’analisi del Centro di ricerca Baffi-Carefin Bocconi su dati Dealogic, che nel periodo 2008-2014, dunque un arco temporale consistente, il 57 per cento delle cosiddette Ipo (offerte pubbliche d’acquisto) propedeutiche alla quotazione alla Borsa di Milano non sia andato in porto; sulle altre piazze, i dietro-front sono inferiori. Tra i motivi della “strage” di buoni propositi pro-Borsa, per Piacentini di Decalia «c’è anche il «conflitto d’interessi tra le banche che prestano i soldi a un’azienda e poi la vogliono quotare ma a un prezzo troppo alto. Così si scoraggiano gli investitori, la domanda di azioni da parte del mercato si rivela insufficiente e stop, niente quotazione».

Il cordone ombelicale che lega gli imprenditori italiani agli istituti di credito viene da lontano e sembra capace di resistere a qualsiasi strappo. Prova a spiegarne il motivo Corrado Caironi, che ora è investment strategist alla R&CA ma è stato a lungo gestore di colossi globali come Merrill Lynch e BlackRock: «Storicamente gli italiani sono dei grandi risparmiatori e col risparmio hanno finanziato le tante piccole e medie imprese. Quando i soldi non bastavano, ci pensavano le banche, le stesse che gestivano i risparmi di chi voleva mettere in piedi un’azienda. Così gli istituti di credito hanno esercitato una pressione assoluta sulle Pmi, rischiando poco perché distribuivano tanti piccoli crediti, con una remunerazione interessante perché la controparte non aveva - e non ha - un grande potere contrattuale. E, in pratica, la banca non rischiava quasi niente, prestando all’imprenditore gli stessi suoi soldi, gestiti come risparmi».

Può cambiare la situazione, si chiede Caironi? Forse sì: le start-up, per esempio, oggi non riescono a partire con i risparmi, perché le famiglie appaiono meno propense a puntarli sulle nuove iniziative. Dunque, bisogna trovare per forza canali alternativi di finanziamento, come i mini-bond o i fondi di “private debt”, che stanno nascendo anche su sollecitazione del governo. Questi fondi forniscono credito al posto delle banche e magari chiedono un posto in consiglio d’amministrazione.

Nonostante la buona volontà i soldi affluiti al sistema imprenditoriale attraverso questi strumenti sono però ancora gocce nel mare dei bisogni. Per finanziare la crescita ha emesso un bond da 8 milioni di euro Medicina Futura della famiglia Improta, gruppo napoletano attivo nella sanità convenzionata che fattura oggi 31 milioni ma vuole arrivare a 73 milioni nel 2018. Mentre Banca Esperia, con i suoi “Private club deal”, presenta a potenziali investitori società che faticano a trovare capitali. Come Genenta Science, start-up milanese del biotech che ha rastrellato 10 milioni. Che cosa ne pensano gli investitori? «Siamo pronti a guardare le nuove proposte in chiave costruttiva, ma anche attenti a evitare spiacevoli sorprese: non deve accadere, per esempio, che i mini-bond vadano a sostituire crediti in sofferenza risolvendo i problemi delle banche ma con un doppio effetto negativo: allontanare i risparmiatori e disperdere risorse», avverte Piermario Motta, amministratore delegato di Banca Generali.

SE FACESSIMO COME IL GIAPPONE
Le imprese più allergiche al mercato sono proprio quelle che ne avrebbero più bisogno, le piccole e medie, che sul mercato azionario meneghino sono il 61 per cento delle “non finanziarie”, mentre nel Paese rappresentano il 96 per cento del pianeta impresa. Un listino azionario che galoppa come ha fatto Piazza degli Affari dovrebbe aumentare l’appetito. Non sta accadendo.

«Non vedo grande effervescenza, forse è colpa di un contesto economico non ancora sgombro di nuvole», dice ancora Caironi, invitando a non trascurare un argomento che sembrava ormai superato: «Siamo ancora a cavallo di un passaggio generazionale, le assicuro che al Nord ci sono tantissimi quarantenni che scalpitano per subentrare al genitore-fondatore, disponibili ad aprirsi a capitali esterni e a progetti di lungo termine. Ma è pieno di settantenni che non hanno intenzione di mollare, alla Borsa non ci pensano e fanno da tappo alla generazione successiva».

Anche per Onado il colpevole numero uno della mancata “apertura” è l’imprenditore. L’ex commissario Consob si stupisce che la debolezza della struttura finanziaria delle imprese non sia tra le urgenze del governo. Concorda Vismara di Equita Sim: «Nessuna risorsa è stata destinata da istituzioni pubbliche a un fondo di fondi dedicato alle società quotate a piccola capitalizzazione, per esempio. E dovremmo fare come il Giappone. Dove il Gpif, Government Pension Investment Fund, che amministra quasi mille miliardi di euro ed è il secondo gestore di fondi pensione al mondo, ha stabilito di piazzare il 25 per cento del patrimonio gestito in azioni di società nipponiche, per supportare la crescita economica del Paese». Trasferendo questa filosofia a casa nostra, gli investimenti dei fondi pensione italiani salirebbero da meno di un miliardo a circa 22 miliardi di euro.