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Coronavirus, esercito e forze dell'ordine in allarme: serve un piano contro caos e disordini
Dopo l'emergenza sanitaria e quella economica, il governo teme possa scoppiare anche quella della sicurezza pubblica, come successo delle carceri. Così militari e polizia presto potrebbero essere chiamati a pattugliare le strade e a distribuire cibo e medicine. E anche i servizi segreti sono allertati. Ecco di cosa discutono i vertici delle forze armate
Nel governo, ormai, la legge di Murphy la temono tutti: «Se qualcosa può andare male, lo farà», dice il paradosso. Tutti sperano che le nuove misure di contenimento possano contrastare l’epidemia di Covid 19, ma è certo che il principio della proporzionalità graduale invocata inizialmente dal premier Giuseppe Conte (e da tutta la catena di comando del potere, tranne poche inascoltate eccezioni) si è dovuto arrendere alla forza del coronavirus e agli effetti devastanti della sua diffusione.
Il pessimismo della ragione, fino a una settimana fa considerato nemico pubblico numero uno, è dunque diventato motore principale delle decisioni dello Stato. Così, dopo la trasformazione dell’Italia in un’enorme zona rossa, con limitazione dei movimenti di tutti i cittadini e chiusura di attività commerciali, membri dell’esecutivo e alcuni leader politici sentiti dall’Espresso temono che, se i comportamenti degli italiani non dovessero modificarsi presto nel segno della responsabilità, bisognerà prendere altre misure estreme. «Perché» spiegano «all’emergenza sanitaria ed economica rischierebbe di aggiungersi quella altrettanto drammatica dell’ordine pubblico. Dunque è necessario prepararsi in tempo, e cominciare a pensare piani d’azione per le forze dell’ordine e, nel caso, per l’esercito».
La rivolta delle carceri è stato solo un antipasto di quello che potrebbe accadere in caso di diffusione incontrollata dell’agente patogeno. Nelle regioni, il timore è che un’escalation dell’epidemia crei disordini. Negli ospedali, nei supermercati, nelle piazze. Senza contare lo spettro dello sciacallaggio, che si ripresenta a ogni calamità. «Bisogna essere pronti ovunque e cercare di coinvolgere maggiormente i militari», spiega una voce autorevole da Palazzo Chigi. «Senza allarmare la popolazione, ma senza farsi trovare impreparati per l’ennesima volta».
Nessuno dei politici sentiti dall’Espresso ha il coraggio di invocare il modello autoritario cinese (che alla quarantena volontaria di 60 milioni di persone ha affiancato un pattugliamento strada per strada di soldati, poliziotti e blindati). Ma tutti, a taccuino chiuso, dicono che serve un salto di qualità nel controllo del territorio. Non solo perché le norme dei decreti del governo vengano davvero rispettate, ma anche per creare reti di sicurezza in ogni città.
Il tema è delicatissimo, e finora nessuno (tantomeno Conte) vuole prendersi la responsabilità storica di militarizzare le strade e, di fatto, congelare per qualche settimana i diritti civili degli italiani. Per una democrazia liberale, sarebbe un precedente spartiacque. «Ma è evidente a tutti che bisogna bloccare l’epidemia ad ogni costo. E che finora parte della popolazione non sembra aver recepito il pericolo reale. Il rischio è che, peggiorasse la situazione, l’anarchia possa prendere il sopravvento. Non possiamo permettercelo».
Ad ora nei cassetti dell’Esercito, dei Carabinieri della Guardia di Finanza e della Polizia non c’è alcun piano d’intervento. Nè nei singoli corpi, né al Coi, il Comando operativo di vertici interforze. I dispositivi di emergenza per catastrofi varie sono appannaggio della Protezione civile, che non si occupa però dell’ordine pubblico. D’altro canto nessuno aveva previsto epidemie o rischi biologici di entità simili al Covid 19.
CHI COMANDA IN PREFETTURA
Dunque, la strategia d’azione è tutta da costruire. In genere, esiste un piano operativo per ogni situazione estrema. Chi ha il compito di gestire l’ordine pubblico è preparato al peggio: attacchi nucleari, batteriologici, nucleari, guerre, calamità naturali, terremoti, cataclismi vari ed eventuali. Esistono piani riservati nelle prefetture di ogni provincia che stabiliscono le linee operative delle forze dell’ordine in coordinamento con i reparti sanitari e gli altri attori sul territorio. Sono i piani di difesa civile e quelli sugli attacchi esterni denominati Nbcr (nucleare, batteriologico, chimico, radiologico).
Protocolli calibrati sulle diverse province in base alla presenza di particolari obiettivi sensibili: la presenza di aziende chimiche, la mappatura dei presidi sanitari, le aree sicure dove far confluire la popolazione. Scenari da fine del mondo, insomma. Da film come “The day after”. Eppure nessuno aveva mai immaginato di doversi confrontare con un’emergenza sanitaria da coronavirus, che ha un impatto su una scala infinitamente maggiore di un attacco terroristico o incidente biologico.
L’epidemia, soprattutto, pone profili di ordine pubblico mai ipotizzati prima, soprattutto con l’innescarsi di una fobia strisciante, fomentata sia dalla paura, sia da notizie false diffuse sui social network, e da un’informazione istituzionale a volte contraddittoria e confusa. Ecco perché in questo contesto di rischio psicosi, il ruolo delle prefetture assume sempre più peso. Sono, infatti, i prefetti e i funzionari che lavorano negli uffici del governo territoriale i deputati alla gestione dell’ordine pubblico. Le istituzioni centrali più vicine al cittadino. In prima linea nel contenimento delle azioni che possono turbare il vivere civile delle nostre comunità. Gli strateghi che coordinano tutte le forze dell’ordine delle zone di competenza.
«Da settimane i colleghi, unitamente a tutto il restante personale disponibile, stanno puntualmente supportando l’azione di coordinamento dei Prefetti sul campo», chiarisce Antonio Giannelli, presidente del Sinpref, il sindacato dei funzionari prefettizi. Perciò, continua Giannelli, «siamo pronti a ogni sforzo straordinario che, anche per sopperire le carenze di personale che si registrano in tante Prefetture, contempli una mobilitazione di tutti i colleghi disponibili. Bisogna operare però un’adeguata turnazione e preservare la loro salute, assicurando la massima efficienza operativa all’intero dispositivo d’intervento».
Polizia, carabinieri, finanzieri potrebbero essere presto usati sulle strade, sia per operare maggiori controlli sui cittadini sia per intervenire dove necessario. I numeri delle forze disponibili, però, sono preoccupanti. Anche analizzando quelli delle prefetture della prima zona rossa (quella di Codogno e dintorni), si evidenzia una carenza di personale - come quello dirigenziale - che si aggira intorno al 50 per cento. Un fatto grave, perché mancano le teste per mettere in atto strategie. A Lodi, il primo focolaio italiano del Covid 19, la pianta organica, oltre al prefetto, contempla sei funzionari: ce ne sono solo tre. Stesso numero a Piacenza. A Pavia affiancano il prefetto solo due funzionari. Il resto del Paese non fa eccezione.
E se organici ridotti possono passare inosservati in tempi di quiete, all’epoca del panico da coronavirus può diventare un serio problema. Soprattutto perché pure i prefetti si ammalano. Come a Lodi, a Brescia, a Modena e Bergamo, dove sono risultati positivi al test. E se si dovessero ammalare o quarantenarsi pure i vicari e i capi del gabinetto prefettizio, avremmo i luoghi da cui passano le decisioni strategiche per l’ordine pubblico completamente sguarnite. Certo, potranno continuare a coordinare a distanza, con videoconferenze. Ma anche questo non è scontato che si possa fare in prefettura, dove spesso manca l’attrezzatura per collegarsi con gli uffici prefettizi fuori dai capoluoghi di regione. «Siamo rappresentanti del governo sul territorio, per governare però ci vogliono mezzi e risorse», è lo sfogo di uno dei prefetti di un capoluogo di regione. Prefetti e funzionari che in queste condizioni si trovano ora a gestire situazione potenzialmente esplosive.
EMERGENZA CARCERI
I piani d’intervento rapido non esistono nemmeno per le carceri. I detenuti hanno organizzato sommosse in decine di strutture sparse per mezzo Paese, da Nord a Sud: Venezia, Milano, Modena, Bologna, Roma, Rieti, Napoli, Melfi, Palermo. Ci sono stati morti e feriti. La miccia delle rivolte è stato il provvedimento che ha limitato i colloqui e le visite con i familiari nei penitenziari per evitare i contatti con l’esterno e la possibilità di far entrare il Covid 19 nelle strutture. Un contagio trasformerebbe - come già accaduto in Cina - le prigioni in un focolaio difficile da domare. I luoghi sono potenzialmente facili da infettare: celle piccole, promiscuità e precarie condizioni igieniche amplificherebbero l’epidemia, trasformandola in una catastrofe.
Anche perché mancano strutture sanitarie idonee a un’emergenza di questo tipo. Un documento del 2011 firmato dall’allora capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria detta le linee operative per intervenire in situazioni critiche che potrebbero verificarsi nelle carceri: rivolte, sequestri di persona, atti collettivi di autolesionismo. Nessun accenno, però, ad una eventuale crisi sanitaria. L’assenza di direttive chiare è confermata all’Espresso da chi domenica scorsa ha partecipato al contenimento della rivolta del carcere di Modena, quella più tragica: sette morti, struttura devastata, ufficio matricole raso al suolo con tanto di fascicoli personali dei singoli detenuti bruciati. «Sappiamo cosa fare durante gli eventi sportivi, nelle rivolte dei centri di accoglienza dei migranti, ma non abbiamo mai ricevuto alcuna direttiva su come comportarci nelle gestione dell’ordine pubblico in eventi conseguenza di un’ emergenza sanitaria», ci spiega uno degli agenti intervenuti per sedare la rivolta nel carcere di Modena, dove si sono contati nove morti.
L’ultima protesta, questa pacifica, è avvenuta nel carcere di Campobasso, martedì mattina. Qui come in altri istituti i detenuti hanno scritto una lettera chiedendo alle autorità di mettere in campo un piano di prevenzione delle diffusione del coronavirus nelle prigioni. Oltre a chiedere pene alternative, su un punto i reclusi sono d’accordo: garantire il presidio sanitario per tutte le 24 ore «vista la presenza di detenuti d’eta avanzata e con già gravi patologie pregresse». Richieste, come quelle della costante presenza di medici, legittime. Altre, invece, più strumentali, come la richiesta dell’indulto e dell’amnistia. Alcuni sindacalisti, per esempio, fanno notare che la contemporaneità delle rivolte escluda la spontaneità da queste dimostrazioni. Il sospetto è che ci possa essere la mano dei clan, che nelle carceri hanno un potere enorme. Un’ombra sui disordini che si nasconde dietro il pericolo epidemia. A Foggia sono evasi in 23. Tra questi un gruppo di affiliati alla mafia foggiana. Motivo in più, chiedono gli esperti, per far presto, e rafforzare gli uffici delle prefetture con professionisti in grado di leggere in anticipo l’evolversi dei fenomeni.
IN TUTA MIMETICA
L’Esercito, finora, su richiesta del ministero della Difesa guidato dal dem Lorenzo Guerini è intervenuto nell’emergenza mettendo a disposizione immobili e caserme (per eventuali quarantene, come nel caso della Cecchignola a Roma e il presidio Riberi a Torino), ospedali militari (il Celio, sempre nella Capitale) e una quarantina tra medici e infermieri militari. Il capo dello Stato maggiore, il generale Enzo Vecciarelli, è però pronto - nel caso di una richiesta del governo - a intervenire anche nel campo dell’ordine pubblico.
All’inizio dell’emergenza coronavirus molte riunioni del Coi, a cui partecipano anche i capi dei carabinieri e della Finanza, sono state incentrate sul tema - sacrosanto - di come proteggere dall’infezione i nostri uomini in armi. Una questione posta anche dai sindacati di polizia, e che ha preoccupato le varie amministrazioni: possibili profili penali e cause civili di magistrati e dipendenti sono incubo di ogni datore di lavoro.
Ora che l’emergenza è diventata drammatica, qualche generale a quattro stelle spinge per disegnare strategie operative, in modo da essere pronti a impiegare i soldati sul campo in caso di necessità. Anche perché, tra le missioni della Difesa, c’è «il concorso nelle attività di protezione civile su disposizioni del governo, concorso alla salvaguardia delle libere istituzioni e il bene della collettività nazionale nei casi di pubbliche calamità».
Nelle prime aree dei focolai lodigiani e padovani, 500 uomini di circa sono stati usati per presidiare una cinquantina di valichi. Ora l’ipotesi è quella di usare, nell’emergenza coronavirus, un numero di forze assai maggiore, sul modello “Strade sicure”. L’operazione voluta dal governo Berlusconi nel 2008 e ancora in vigore, ha permesso il dispiego di militari e mezzi dell’Esercito per il contrasto alla criminalità e al terrorismo. Che nel corso del tempo sono stati impiegati anche per emergenze eccezionali, dalla Terra dei Fuochi ai terremoti in Umbria e ad Ischia, passando per l’Expo fino al Ponte Morandi.
Oggi gli uomini in campo sono poco più di 7500, ma in realtà (tra turni e quelli che stanno facendo i corsi di preparazione) il numero di soldati interessati a “Strade sicure” sono circa 22 mila (l’equivalente di una divisione) oltre a 1200 mezzi tra jeep, Lince e autotrasporti. I militari - carabinieri esclusi - sono parificati ad agenti di pubblica sicurezza, e tra pattugliamento, vigilanza di obiettivi sensibili (dalle stazioni agli aeroporti fino alle ambasciate), hanno compiuto in quasi dodici anni cinque milioni di controlli, 51 mila tra fermi, denunce e arresti, oltre a sequestrare armi, 14 mila autovetture, e due tonnellate di narcotici.
Ora, nell’Italia squassata dal virus, non è impossibile che venga messa in piedi un’operazione parallela a quella di “Strade sicure”. O che gli stessi uomini vengano dirottati per fronteggiare l’emergenza, naturalmente con nuove regole d’ingaggio. In particolare, per il pattugliamento di strade, da intendere come presidi mobili o statici che facciano da deterrente a chi viola le regole del decreto che vuole gli italiani “tutti a casa”. Ingaggio che potrebbe prevedere, ovviamente, interventi anche in caso di problemi di ordine pubblico. Non solo: l’Esercito, che è distribuito capillarmente sul territorio nazionale, potrebbe essere utilizzato anche per distribuire cibo e medicine a coloro che non riuscissero a procurarselo da solo. Mentre non è impossibile che, in caso di successo nel contenimento nazionale dell’epidemia, in futuro i militari potrebbero essere usati per controllare arrivi di stranieri da zone focolaio.
Esercito, ma soprattutto Polizia e carabinieri, potrebbero essere impiegati anche su un altro fronte. Quello dei trasporti eccezionali (nel caso di blocco di quelli pubblici) e quello del controllo dei negozi alimentari. La calca davanti ai supermercati è considerato segnale preoccupante dalle autorità. I cittadini che corrono negli alimentari per paura di trovare gli scaffali vuoti, terrorizzati nonostante le rassicurazioni del governo sulla possibilità di fare sempre la spesa, hanno colpito. La folla incontrollata è una minaccia alla sicurezza. Persino le star del calcio sono state immortalate nella notte in coda e con carrello al seguito per stipare scorte. E così anche i templi del consumo potrebbero diventare luoghi da sorvegliare. Anche perché con le strade vuote, come nel dopo terremoti, spesso compaiono gli sciacalli, pronti ad approfittare delle sciagure collettive. Criminali che oggi vivono anche sul web. A questi ultimi sta dando la caccia la Guardia di Finanza: nel mirino gli sciacalli del coronavirus che vendono disinfettanti e mascherine a prezzi esorbitanti nell’ordine di 400 euro a pezzo.
007 AL LAVORO
Anche i servizi segreti sono, ovviamente, allertati. Aisi e Aise non hanno competenze specifiche sulle epidemie, ma è noto che l’intelligence ha il compito di «ricercare ed elaborare nei settori di competenza tutte le informazioni utili alla difesa dell’indipendenza, dell’integrità e della sicurezza della Repubblica». L’Aise, la nostra agenzia per la sicurezza esterna, ha certamente capacità sulle minacce Nbcr, ma in caso di epidemie nessun piano è stato mai approntato. Ad oggi, il governo ha chiesto si nostri servizi di ottenere informazioni sulle ditte straniere che si stanno accalcando per venderci materiale sanitario, mascherine e ventilatori. Per capire se sono aziende serie, se i prodotti sono di qualità e a prezzi congrui. Qualcuno, a Palazzo Chigi, vorrebbe pure che le nostre barbe finte lavorassero per capire chi, nel mondo, si sta avvicinando maggiormente a farmaci antivirali efficaci contro il Covid 19 e al vaccino. In modo da essere pronti ad acquistare prima di tutti le scorte necessarie.
In un vecchio incontro presso gli 007 dell’allora Sisde, l’attuale direttore scientifico dell’ospedale Spallanzani di Roma, alla fine di una conferenza sui come controllare una minaccia biologica terroristica, fu chiarissimo: «Per affrontare il bioterrorismo occorre un’integrazione di tutte le forze dello Stato, civili e militari, in grado di acquisire informazioni, decidere gli interventi da adottare», spiegò. «Senza l’integrazione di attività e competenza si rischia di fare come la storiella di Ognuno, Qualcuno, Ciascuno e Nessuno: “C’era un lavoro importante da fare: Ognuno era sicuro che Qualcuno lo avrebbe fatto, Ciascuno avrebbe potuto farlo ma Nessuno lo fece. Finì che Ciascuno incolpò Qualcuno perché Nessuno fece quello che Ognuno avrebbe potuto fare”». Speriamo che il paradosso non diventi realtà.