Il fotografo Valerio Bispuri ha lavorato per anni al servizio pubblicato sull'Espresso. E qui spiega la difficoltà di affrontare un tema del genere

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Ho conosciuto Margarita Meira alla fine del 2015 a Buenos Aires, nel quartiere di Constitución, dove aveva da poco fondato l’associazione delle madri vittime di tratta. Si riunivano in questa piccola stanza con un tavolo, qualche sedie e una parete di foto di ragazze scomparse, sparite nel nulla: chi da qualche mese, chi da anni, erano state sequestrate e costrette a prostituirsi in qualche postribolo nascosto del paese.

Il lavoro sulla tratta delle donna in Argentina è iniziato guardando quelle immagini di ragazzine sorridenti e inconsapevoli. L’idea di raccontare l’invisibile era molto complessa perché mi trovavo a contatto con qualcosa che non esisteva nel momento. Ho iniziato ad ascoltare, ascoltare le madri disperate che cercavano le loro figlie, a volte anche da anni, e non smettevano di sperare, di lottare. Mi sono incontrato con le poche ragazze che erano riuscite miracolosamente a scappare dopo anni di soprusi e violenza da parte dei loro aguzzini.

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Rapite, violentate e uccise: in Argentina le desaparecidas spariscono nei bordelli
5/1/2021
Ho guardato gli occhi fermi di Fabiola, una ragazza di 21 anni, pelle e ossa, quando l’ho incontrata la prima volta pesava 32 chili. Sentivo il suo sguardo assente che ogni tanto lacrimava così come l’espressione apparentemente serena di Nancy e il dolore immenso di Laura. Cercavo di capire le loro ferite e all’inizio non usavo la macchina fotografica, non serviva, prima era necessario entrare in contatto con loro: marciare tutti insieme alle manifestazioni delle Madri vittime di tratta e vedere come queste donne provavano a sopravvivere dentro.

Mi interessava raccontare la loro vita interiore ma anche come vivevano, il loro contatto con l’esterno.

Il lavoro fotografico è iniziato per sottrazione, andando a cercare oltre quello che vedevo, nei gesti, nello sguardo, nei movimenti, in un presente che è passato e in un passato che cerca di essere presente. Ho iniziato a scattare alle madri disperate e alle ragazze tornate dopo essere state rinchiuse in un buco clandestino. Ho voluto raccontare la forza encomiabile di Margarita che fa l’impossibile per riuscire a ritrovare qualche donna scomparsa e ridargli un’identità.
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Sono stato nelle province più povere di Buenos Aires dove molte di queste ragazze si rifugiano: in baracca fantomatiche, a contatto con una realtà drammatica. L’intento è stato di non dare al lavoro sulla tratta solo un taglio di denuncia ma di cercare di capire dove iniziava il sequestro, perché l’Argentina è un paese così abituato al fatto che scompaiono persone, più di ogni altro luogo nel mondo.

Mi è interessato raccontare quello che fa Margarita e le madri ma anche quello che sentono le ragazze tornate da questo incubo e capire che cos’è veramente la tratta. Un mondo così complesso e spesso impenetrabile quello dell’assenza, del dolore, della violenza che rimane attaccato alla pelle, agli occhi di chi l’ha vissuto. Le immagini che ho cercato sono proprio per raccontare le ferite lasciate di quelle donne che sono sopravvissute.