Database condivisi. Algoritmi che riconoscono le foto. La guerra alla pornografia infantile è una sfida tecnologica. Ecco come la affrontano Google, Facebook e gli altri giganti del web

Così si combatte la pedopornografia in Rete

Foto di abusi sui minori, nudi integrali di bambini, immagini che nessuno vorrebbe mai vedere. È stata la nostra inchiesta a svelare la faccia oscura di Twitter diventato teatro di adescamenti di minori e scambi di foto pedopornografiche. L’ultimo pezzo dell’universo degli orchi online. Un universo che continua ad espandersi e che ha portato i giganti della Rete, da Google a Facebook allo stesso Twitter, e le forze di Polizia di mezzo mondo a coalizzarsi per una caccia al pedofilo che sta cominciando a dare i suoi frutti, grazie a software sviluppati ad hoc, a banche dati e a nuove tecnologie pensate per pescare gli orchi nella Rete.

A partire da un programma che ha esaminato 19 milioni di foto di abusi sui minori. «E parliamo solo del 2012. Nel 2007 erano meno di un quarto...». Tocca al National Center for Missing & Exploited Children degli Stati Uniti (Ncmec) dare le dimensioni del fenomeno: perché quei milioni di immagini solo solo un frammento. E quantificarlo dà la misura di cosa sia la pedopornografia on line. Ma è proprio dalla fotografia del fenomeno e dalle tecnologie capaci di scovarlo che comincia la caccia.

E cominciano le difficoltà. Perché sapere con precisione quanto materiale sui minori circoli in rete è impossibile. I principali rapporti internazionali stimano l’esistenza di milioni di contenuti diversi che riguardano centinaia di migliaia di vittime. «Un’immagine on line può rimanere in circolazione per sempre, e non esiste limite a quante persone possono vederla o scambiarsela», si legge sul rapporto dell’Unicef. Una valanga di contenuti che cercano un luogo, digitale, per essere condivisi, scambiati, commerciati. Molto spesso quel luogo sono le bacheche del “deep Web”, la zona oscura della Rete a cui si può accedere mascherando la propria connessione, e spesso usata anche per traffici illegali. Non di rado, però, quei luoghi sono a un click da noi, in quei social network o nelle chat.

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«Il contrasto alla pedopornografia on line è come la lotta al doping. Bisogna sempre cercare di essere un passo avanti, e questo richiede un lavoro costante», spiega Carlo Mauceli, national digital officer di Microsoft Italia. L’azienda di Redmond fa parte di una rete internazionale nata per contrastare il fenomeno su Internet, ed ha sviluppato la tecnologia che è oggi uno degli strumenti principali della lotta alla diffusione di questi contenuti, utilizzata anche da Google, Facebook e Twitter. Il programma si chiama PhotoDna e permette di «cercare, comparare ed eliminare le foto pedopornografiche presenti in rete», continua Mauceli. Il software associa a un’immagine una firma digitale unica, una specie di impronta digitale, grazie a un algoritmo matematico, definito di “hashing”. Ogni foto così identificata come pedopornografica viene “marchiata” e l’informazione viene condivisa tra i grandi operatori del mercato e le forze di polizia di vari Paesi (tra cui l’Italia) attraverso il database del già citato Ncmec, a cui Microsoft ha donato PhotoDna nel 2012. Per definire come pedopornografica una foto, tuttavia, serve ancora l’intervento umano, visto che nessun software può al momento capire da solo, con sufficiente precisione, cosa ritrae una foto.

Le segnalazioni che arricchiscono il database degli orrori arrivano quindi dalle piattaforme interessate, in gran parte fornite di squadre di persone che cercano tutto il giorno questo tipo di foto sui propri servizi, da associazioni di tutela del minore e dalle forze dell’ordine che utilizzano il sistema anche per risalire alla prima pubblicazione in Rete del contenuto e in questo modo, forse, al suo autore. Secondo i dati forniti dalla CyberTipline del Ncmec, nel 2013 questa collaborazione ha permesso di inviare agli operatori del web oltre 10 mila segnalazioni di contenuti da oscurare. E la rimozione è avvenuta mediamente in meno di due giorni.
Un software analogo è poi capace di scovare i video. «I pedofili hanno iniziato con sempre maggiore frequenza a filmare i loro crimini», ha spiegato il presidente di Google Eric Schmidt al “Daily Mail”, «Per questo i nostri ingegneri al lavoro su YouTube hanno creato una nuova tecnologia capace di identificare questi video». E un portavoce di Google ha confermato che il sistema è già utilizzato su YouTube; ha spiegato che si tratta di qualcosa di simile al PhotoDna, ma applicato ai filmati. Obiettivo è quello di definire uno standard video nel settore del contrasto alla pedopornografia e di rilasciarlo agli altri operatori del mercato come già accaduto per le foto. Il motore di ricerca ha inoltre introdotto di recente un algoritmo per impedire la comparsa su Google di risultati che possano portare a materiale pedopornografico e che «ha effetto su centinaia di migliaia di ricerca in 159 lingue diverse», continua il portavoce della società.

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Nella santa alleanza contro la pedopornografia non mancano i social network, investiti dal doppio ruolo di potenziali piattaforme di scambio, condivisione e anche di adescamento. «Abbiamo un team di esperti che investiga su questi fatti e collabora con autorità e forze dell’ordine», spiega un portavoce di Facebook: «E avendo introdotto sul sito il PhotoDna, non è possibile caricarvi foto già schedate come pedopornografiche. Inoltre forniamo degli strumenti immediati e pratici in modo che le persone possano segnalare immediatamente post che li disturbano».

Ma se sono tutti d’accordo sul fatto che si debba “pulire” il web dalle foto pedopornografiche, cercando di assicurare alla giustizia chi le commercia, sul sistema per farlo cominciano a esserci perplessità e polemiche. Gli antefatti sono due. Il primo: lo scorso agosto un pedofilo statunitense è stato arrestato perché tradito dallo scambio di foto fatto attraverso Gmail, il servizio di posta elettronica di Google. Gli scatti pedopornografici in questione erano infatti presenti nel database del Ncmec e, come tali, sono stati rilevati da Google, che li ha rimossi dai suoi server ed ha fatto partire la segnalazione all’organismo internazionale, che a sua volta ha allertato le autorità. Non solo: pochi giorni dopo, sempre negli Stati Uniti, un altro arresto è stato effettuato grazie a una foto depositata su One Drive, il servizio di archiviazione in cloud di Microsoft.

Buone le intenzioni e buoni i risultati, ma le associazioni per i diritti digitali sono in allarme, preoccupate che enti terzi possano andare a leggere contenuti privati come quelli di una mail o di un servizio di cloud non solo per contrastare la pedopornografia e senza le tutele legali fornite dalla magistratura. «Google non legge le mail delle persone», spiega un portavoce della società: «In quel caso si è trattato di una foto già segnalata come illegale che veniva inviata a un’altra persona. Quindi parliamo di un atto intenzionale ed è la legge a obbligare gli operatori a segnalare fenomeni simili».

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