Chiara Lamatrice ha scelto il nome di Aisha, come una delle spose del profeta Maometto. «Fino a dieci anni fa», ricorda, «ero una fervente cattolica, poi qualcosa è cambiato». Oggi la sua Mecca è a Centocelle, il quartiere della periferia est di Roma dove ha sede la seconda moschea più grande della città. Niente minareti, nessun megafono per amplificare il richiamo alla preghiera del muezzin.
Il centro islamico Al Huda è un garage ricoperto di tappeti, un vecchio parcheggio sotterraneo stretto fra palazzine figlie della speculazione edilizia, parrucchieri tunisini, macellerie halal, ristoranti che servono tè e cous cous. Aisha, ventotto anni, il viso incorniciato da un velo bordò, fa parte dei diecimila italiani convertiti all’Islam. «Sono andata in chiesa fino a 14 anni», racconta, «poi a scuola ho visto suore che picchiavano mio fratello e sono rimasta delusa. A 17 anni una ragazza pachistana, la mia prima vera amica, mi ha invitato a trascorrere con lei il Ramadan. Così è iniziata la mia conversione».
Il Corano la fa sentire meno sola, parte di una comunità. Sull’Is e gli oltre 50 combattenti partiti dall’Italia, Aisha ha le idee chiare: «Chi va in Siria non è un credente, la nostra è una religione di pace, però alcune cose vanno ricordate. Ad esempio che la Francia, fra le vignette di “Charlie Hebdo” e i bombardamenti in Siria, se l’è cercata. E pure l’Italia lo sta facendo, alleandosi con Parigi. Io sono contro tutte le guerre, ma credo che il rischio di attentati esista anche qui da noi».
Centocelle, Tor Pignattara, Torre Angela: incrociando i rapporti degli investigatori italiani e stranieri, sono questi i quartieri italiani più a rischio per l’infiltrazione di radicali. Questione di probabilità, visto che queste sono anche le zone abitate dalle comunità più numerose di musulmani, dove quindi è più facile trovare appoggi e protezioni. A una settimana dagli attacchi terroristici di Parigi, “l’Espresso” ha trascorso due giorni in questi sobborghi. Per chiedere ai musulmani d’Italia cosa pensano del cosiddetto Is, del terrorismo. E per provare a capire se anche nelle nostre periferie si nascondono potenziali kamikaze.
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«VOGLIAMO UNA VITA NORMALE»
Venerdì 20 novembre, ore 13.30: la preghiera più importante della settimana è appena finita. Il “Mercato arabo” è un alimentari situato a pochi passi dalla moschea di Centocelle e Hassan, nato a Napoli ventisei anni fa da padre marocchino e madre tunisina, lo gestisce insieme alla sua famiglia. «Ci sono giornalisti e politici», si infervora, «che sono sciacalli: sfruttano situazioni drammatiche per creare odio e identificano i terroristi con l’Islam, ma per noi musulmani è inconcepibile farsi saltare in aria come hanno fatto quei ragazzi. Quelli fortunatamente sono una minoranza, la maggioranza siamo noi che lavoriamo e vogliamo vivere una vita normale».
Suo fratello, Ibrahim, aspetta che Hassan abbia finito di parlare, poi interpreta un sentimento diffuso nel quartiere: «Tutti i morti sono da condannare, invece a leggere certi giornali sembra che ci siano i morti di serie A e di serie B. Quelli di Parigi da una parte, quelli di Beirut e Gaza dall’altra. Ci sono stati più articoli sulla morte del cane Diesel a Parigi che su quelli di Beirut. Ma noi musulmani non possiamo protestare, altrimenti i vari Salvini dicono che siamo complici dei terroristi». Complici? Il proprietario del “Mercatino Casablanca”, una macelleria affacciata sulla chiesa di Piazza San Felice, non vuole rivelare il suo nome, ma dice di vivere a Centocelle da 18 anni e risponde secco alla domanda: «Io sono musulmano e vi assicuro che gli assassini di Parigi li ammazzerei con le mie mani».
DALLE BR AD AL QAEDA
Nella zona più araba di Roma, italiani e stranieri sembrano convivere senza troppi problemi. Anzi, c’è chi pensa che qui i tempi bui sono passati da un bel po’. E in effetti in queste strade sono cresciuti diversi brigatisti rossi. Come conferma Giuseppe, 50 anni, l’edicolante di via dei Castani, una strada che taglia in due il quartiere: «Ma te pare che c’ho paura », ride, «io ho vissuto gli anni di piombo e questo è niente a confronto. E poi, diciamocelo, l’Islam è una cosa e i pazzi che si fanno saltare in aria un’altra». Una distinzione, questa, fondamentale ancor di più per l’imam della moschea del quartiere, il tunisino Mohamed Ben Mohamed: «Queste stragi», ci spiega, «colpiscono soprattutto noi, perché alcune persone non distinguono più tra islamici e terroristi, e noi che siamo cittadini di questo Paese abbiamo paura».
Che il fanatismo possa attecchire tra i giovani di Centocelle è un sospetto dell’intelligence, ma è ritenuto un rischio anche da tanti musulmani. D’altronde gli indizi non mancano. Quattro anni fa, nel quartiere, è stata scoperta una fabbrica di documenti taroccati: uno degli indagati era sospettato di terrorismo. E stando alla black list stilata lo scorso 19 novembre dall’Fbi e dal Tesoro americano, qui, per un periodo, ha abitato El Sayed Abdelkader, egiziano, ucciso da un drone nel 2012 in Pakistan: un vero e proprio ambasciatore di Al Qaeda in Italia, secondo l’intelligence americana.
«Anche in questo quartiere si possono incontrare persone con idee radicali», ammette l’imam Ben Mohamed. Che però invita a diffidare della tesi secondo cui le moschee sono il luogo di ritrovo di queste persone: «I giovani coinvolti hanno alle spalle un passato di criminalità e droga. Il carcere è spesso il posto in cui si risveglia un sentimento di fede che non viene coltivato in moschea ma sul web, senza una guida vera, oppure seguendo “lupi solitari” che nulla hanno a che fare con l’Islam. Pensate che noi imam moderati veniamo etichettati come miscredenti da queste persone».
QUELLI DELLA ROTTA BALCANICA
Anche Salameh Ashour, presidente della comunità palestinese di Roma e del Lazio, sostiene che l’indottrinamento non avviene quasi mai nei luoghi di preghiera. Lo incontriamo davanti alla moschea Al Huda, dove è appena venuto a inginocchiarsi vestito in giacca e cravatta. «In genere», spiega, «i gruppi di fanatici si riuniscono lontano da questi centri. Nelle sacche di emarginazione dei quartieri più poveri, proprio come questo, predicatori autodidatti pescano disperati e inculcano loro l’odio verso l’Occidente, utilizzando termini ormai desueti, ragionando ancora con schemi che furono del colonialismo». Ashour, convinto che sia «giusto contrattaccare il cosiddetto Stato Islamico con le armi», dice di essere preoccupato per alcuni personaggi che s’improvvisano predicatori fuori dalle moschee. Il pericolo si annida dunque tra le strade. In scantinati e piccoli bar, giardinetti e appartamenti privati. L’hanno intuito anche gli investigatori, che sospettano di un gruppo salafita formato da albanesi e kosovari, i cui tentacoli arrivano fin dentro a Centocelle. Li chiamano “quelli della rotta balcanica”: gente che agisce nell’ombra, evitando luoghi troppo scoperti come, appunto, le moschee. Hanno il compito di selezionare, indottrinare e inviare in Siria e Iraq carne fresca pronta al sacrificio nel nome di Allah. Una sorta di agenzia interinale del terrore capace di fornire un servizio all inclusive al califfo Al-Baghdadi, compresa la realizzazione di documenti falsi e l’organizzazione del viaggio verso l’antica Mesopotamia.
Anche a Tor Pignattara, una decina di minuti d’auto da Centocelle, c’è una nutrita comunità islamica rappresentata da quattro moschee: qui la maggioranza dei fedeli arriva dal Bangladesh, ma anche tra loro gli investigatori temono che possano infiltrarsi dei radicali. In via Della Rocca, a fianco ad una piccola sartoria dove un uomo sta cucendo a macchina un paio di pantaloni, c’è il “Torpignattara Muslim Center”. Fino a un anno fa era un supermercato, ora è un salone adibito a moschea e scuola coranica. Alle 10.30 di sabato mattina incontriamo un gruppetto di ragazze velate intente a studiare arabo, poco più in là i maschi sono indaffarati a risolvere problemi di geometria, mentre quattro bambine leggono il libretto illustrato “Cosa dice il piccolo musulmano”, una sorta di catechismo in pillole. Mohamed Abul Hashem, bengalese, da 10 anni in Italia, ci apre le porte del Centro e accenna alla presenza nella zona di “imam itineranti”, figure temute dall’antiterrorismo perché difficilmente tracciabili: «Queste persone», racconta, «arrivano e dicono di voler entrare in moschea per insegnare il Corano. Noi glielo impediamo perché abbiamo paura che tra loro ci possano essere dei fanatici».
TRECENTOCINQUANTA IN UN GARAGE
Musulmani ce ne sono tanti, in questo sobborgo un tempo meta degli immigrati meridionali. Ognuno ha la sua storia e il suo parere su quanto avvenuto a Parigi. Hossain, diciassettenne bengalese con l’accento romano, chiede chi è stato il primo ad attaccare: «Se è stata la Francia a bombardare la Siria», dice, «allora gli altri rispondono». Mentre Sahak, 42 anni, rifugiato afgano, alla vendetta preferisce il perdono. «È mio fratello», spiega indicando la foto di un ragazzo sul cellulare: «Era nelle forze di sicurezza afgane, tre mesi fa è stato ucciso dal Daesh vicino a Kabul. Quando penso alla sua morte provo rabbia e sono sicuro che i familiari delle vittime di Parigi provano lo stesso sentimento».
Da Tor Pignattara, proseguendo verso est per dieci chilometri, superiamo il raccordo anulare e arriviamo a Torre Angela, uno dei quartieri più poveri di Roma, sede del garage-moschea Al Manar. È uno dei centri islamici considerati a rischio dagli investigatori: un vecchio scantinato umido, nascosto fra due villette fatiscenti, dove il venerdì vengono a pregare fino a 350 persone. Dentro, oggi, ce ne sono solo sei: due asiatici, due magrebini, due giovanissimi ragazzi subsahariani. Kabir Mohammad, 39 anni, bengalese, è il tesoriere del Centro. È in Italia da 18 anni e fa il pizzaiolo. «Sono venuto in Europa per migliorare la mia vita e voglio vivere in pace». Poi racconta di come sia facile, per potenziali radicali, inserirsi in queste moschee di periferia: «Qui la gente viene, prega e se ne va. Spesso non sappiamo neanche chi sono. Nei giorni scorsi è arrivata la polizia, ci ha chiesto di avvisarli se passa qualcuno di sospetto e noi siamo contenti di farlo: stiamo bene in Italia e vogliamo vivere tranquilli».
Kabir sabato pomeriggio doveva lavorare, poi tornare a casa e badare al figlio disabile. Per questo non si è unito ai suoi “fratelli” che hanno manifestato in piazza Santi Apostoli, a Roma. «Non si uccide nel nome di Allah», hanno urlato dal palco gli organizzatori. Tra i musulmani presenti c’era anche Chiara Aisha Lamatrice, la ragazza italiana convertitasi all’Islam. Quando la incrociamo tra la folla, i suoi occhi sono lucidi: «Ho pianto quando gli oratori hanno detto che l’Islam è contro la guerra, perché so che ciò in cui credo non c’entra con la violenza». Il Corano ha salvato Aisha dalla solitudine. Ha trovato buoni maestri, lei. Ma nelle periferie non mancano predicatori fanatici. Pronti a trasformare le debolezze in odio, come nelle banlieue di Bruxelles e Parigi.