La notte del 6 aprile 2009 il terremoto d'Abruzzo ha fatto oltre trecento vittime. E ha tolto agli aquilani la loro città e la loro comunità. Come racconta una scrittrice, tornata tra le case e le macerie del centro storico (Foto di Giovanni Cocco)

Cammino per la città di notte. L’Aquila è più buia delle sue montagne. Forse il silenzio compensa una mancanza di pudore. Vedo attraverso le fessure di muri spaccati, di travi e ponteggi, di porte tenute insieme da catene e lucchetti come se l’abbandono l’avessero chiuso dentro. Insieme a quel tipo di memoria dolorosa che nessuno vuole portare con sé. Come la propria faccia nelle foto appese che mi viene voglia di staccare dal muro, e conservare.

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C’è qualcosa di attraente, una specie di bellezza oscena che ricorda l’assurdo della vita. Mi trovo davanti a un tavolo apparecchiato, a un letto con l’impronta sul cuscino, a bicchieri da lavare, quando entro nelle case, invadendo spazi di intimità già violata dalla forza della terra, e dal tempo. Penso a cosa sia una casa. A cosa la renda unica.

«Mi manchi da morire, casa»: un uomo mi fa notare la scritta tra due finestre puntellate. Forse vendo e me ne vado, mi dice guardandomi come se mi volesse testimone della sua decisione. Continuano a dirmi che manca poco, che sono arrivati i soldi, che la casa adesso la rimettono a posto. Intanto giro per le strade che mi ricordano da dove vengo. Non voglio che mi tolgano la città da sotto i piedi. Se non ci cammino ogni giorno, c’è il rischio che mi faccia paura tornarci. Un senso di sospensione, e di attesa.
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L’Aquila di notte è ferma a quella notte. Anche i discorsi sono fermi a quella notte. E sono passati sei anni. Dalla propaganda della politica come intervento spettacolare, qualcuno qui lo chiama l’inganno della politica. Perfino il modo di camminare della gente sembra risentire di quella notte. E di sei anni passati fuori dalla città, fuori dalle case, fuori dalla vita di prima. Camminano lenti, con gli occhi puntati in alto, cercando di ritrovare i segni del loro passaggio.

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Seguo la luce di qualche lampione, e il sentiero delle lucette rosse delle impalcature, accese come lumini in una chiesa in segno di preghiera. Sento una musica. C’è qualcuno in fondo alla strada. Mi prende una specie di euforia, mi viene voglia di correre. Ma è come se mi agitassi dentro un labirinto, giro l’angolo e ho già perduto i suoni, e la luce, e sono di nuovo al buio, confusa, come sbattuta contro un muro. Il buio di una città disabitata è fondo come un pozzo. Torno indietro, prendo una via, un’altra. Ci sono i nomi delle strade ma non corrispondono più. Sono spaesata. Uno spaesamento dato dall’irriconoscibilità delle parti, spezzate, interrotte, oppure nascoste alla vista, barricate dietro migliaia di tubi neri agganciati l’uno all’altro da giunti dorati. Lo sanno tutti che sono lì da sei anni, che non si possono contare per quanti sono e non servono a niente così tanti giunti dorati incastonati come pietre preziose. Che sono in affitto, vanno pagati gli Innocenti, così si chiamano, i tubi. I nomi delle cose, a volte.

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Non importa, lascia stare i nomi, mi dico, sono quello a cui portano che conta, adesso. E la strada che non ricorda più il suo nome mi porta a quella musica. C’è gente che beve, che balla. Una festa, musica a tutto volume, risate alte a notte fonda. Sa di libertà, la città senza regole di convivenza. Senza divieti se non quelli di passaggio oltre reti e nastri biancorossi attorno a vecchie macerie e nuovi mattoni. Come un ribaltamento dell’ordine: il buio che nasconde e non fa paura, le case abbandonate dove fare l’amore, le strade libere dalle auto, occupate di notte da giovani che la città com’era prima non se la ricordano, i palazzi del potere disabitati, le case dei più ricchi accessibili a chiunque voglia ritrovarsi sotto soffitti affrescati.

Una specie di sospensione della proprietà. Democrazia sismica, pubblico e privato che si confondono. E nella rottura dello spazio privato si infila la voglia di occuparsi di ciò che non appartiene a nessuno, tutti i cani randagi che qualcuno adotta ogni giorno, e i gatti a cui due donne portano da mangiare, le ho viste che passavano attraverso il buco di una recinzione, che tornavano a casa loro, inagibile, diventata il cortile per i gatti della città. Viviamo come dentro una bolla, dice il proprietario di un ristorante di cui è rimasta solo la facciata. Il tempo non conta più, quello che doveva essere provvisorio è diventato permanente. Sono chiuso in una casa che non sa niente di me, di cosa ho fatto, di quanti anni ho, di cosa mi piace. Nel container di fronte al vecchio ristorante c’è il bancone che ha tirato fuori a forza dalle macerie. Lo aveva fatto lui, ricavato dalle travi della ferrovia. Mi piacciono le cose che hanno una storia, mi dice, che invecchiano, che mi conoscono.

[[ge:espressoarticle:eol2:2199721:1.50639:article:https://espresso.repubblica.it/attualita/cronaca/2013/02/07/news/l-aquila-il-male-dei-sopravvissuti-1.50639]]Mi chiedo quanto una certa educazione all’avere dei diritti sia fondamentale quando la realtà è così anomala e dolorosa da stordire, da sentirsi grati per il solo fatto di essere vivi. Come insorge una comunità quando si accorge che il dono nasconde il ricatto? Ti do una casa intanto, sii riconoscente. Come si oppone a una politica che non fa il bene della polis se mantiene lontani i cittadini dalle proprie case, se lascia spazio e mano libera a chi dentro la città decide senza un piano condiviso, una visione comune? Forse l’inganno della politica è aver fatto credere che per vivere basti una casa. Avere chiamato vita la sopravvivenza.
Rumore circolare di betoniere, e rimbombo freddo di trapani e martelli. Di giorno la città è un cantiere di dodicimila operai. Il corso ha nuovi stucchi, ancora umidi, un po’ tutti uguali, color pastello. Intorno, polvere di calce, odore di muffa, un esercito di uomini che entra ed esce dalla città ogni giorno. Lavora, mangia e se ne va.

Pan e ojo, e il vino dell’Abruzzo. Una cantina vecchia di cinquecento anni. Ci arrivo tra muri di assi di legno di un cantiere. Ju Boss è il primo locale storico ad avere riaperto. Il proprietario e i suoi figli stappano una bottiglia dopo l’altra con un cavatappi appeso al muro che è come una leva che ciascuno tira a modo suo, come se aprissero una porta, o abbassassero un ponte levatoio. Tavoli di giovani, di vecchi, di caschi gialli di operai in pausa. Un posto pieno di storie, un luogo della memoria e nuovi inizi. Come una piazza.
Capisco che L’Aquila è vuota di abitanti ma è piena di gente che pendola tra la periferia e il centro, pellegrini di una città consacrata alla memoria e alla nostalgia. Viandanti, apolidi. Abitano fuori dalla città storica, vengono dalle diciannove new town. Sparsi, dispersi, a ridosso delle pendici dei monti, difesi, o controllati a vista, dai centri commerciali costruiti come torrioni in mezzo al nulla. Dentro casupole tristi come insediamenti militari, villaggi dormitorio, anonimi, seriali, con l’erba finta sotto le finestre.


È possibile che la politica non pensi al danno psicologico dello sradicamento, non tema lo sfilacciamento del tessuto sociale, la frantumazione dell’anima della città? Una donna scosta una tenda, mi guarda come fossi una creatura del cielo. Qui non c’è mai nessuno, mi dice, sta per piovere, nella mia casa vera entrerà la pioggia. Vera, come se quella in cui vive ora fosse finta, falsa, o meno reale. Sono vecchia, continua, i vecchi sono qui a finire la vita, senza neanche un cassetto in cui trovare quel pezzo di vita che uno sa di avere vissuto. Una città senza corpi non ha anima, senza cittadini non è una città.


Ripenso ai nomi, se ancora corrispondono alle cose. Penso alle new town, e mi dico che forse diventano ciò che significano, le Nuova Città, l’altra città, nel senso di àltera, diversa, e magari alterata, la città che non ha più niente di ciò che la definiva in questa parte di mondo. Tutta decentrata, scentrata, spiazzata, e spiazzante. Animata di corpi che vanno e vengono e non si trovano da nessuna parte, niente più piazze, fontane, cinema, teatri, biblioteche, bar, caffè, edicole. Panchine, invece, una in fila all’altra. Per stare seduti e guardare il vuoto. Niente più cerchi per guardarsi in faccia. È la periferia la nuova città? Che sia riempita di spazi che uniscano e non isolino, che facciano crescere e non mortifichino. Che ci si inventi un luogo della socialità gratuito, pubblico, libero come è sempre stata la piazza, simbolo dell’assemblea, del potere partecipato, della possibilità di incontrarsi, di dissentire, di essere al centro della propria vita personale e politica.
Come si fa a sentirsi cittadini in una tenda a pagamento?