
Un capovolgimento storico, perché questa volta la linea di frattura non passa solo tra laici e cattolici, come accaduto in passato, o tra i vertici e la base, come in occasione del referendum sul divorzio del 1974, quando molti credenti disubbidirono alle indicazioni di voto del Vaticano.
E neppure tra la leadership ecclesiale e i cattolici adulti che rivendicano la loro libertà nelle scelte politiche, come successe nel 2007 tra il cardinale Camillo Ruini e l’allora premier Romano Prodi sulla legge dei Dico, il primo tentativo (fallito) di regolamentare le coppie di fatto. In questo caso la crepa separa i vescovi, spacca la Cei come se fosse il Pd vecchio stile. E arriva a mettere la Conferenza episcopale in una traiettoria impensabile, in rotta di collisione con il primate d’Italia, papa Francesco.
«Non c’è solo il papa», ripetono in Cei gli uomini del cardinale Bagnasco. Il mantra di queste settimane. La trincea, la linea Maginot su cui attestarsi. Che qualcuno traduce più ruvidamente: «Il papa chiede autonomia alle chiese locali? Bene, e allora noi siamo autonomi da lui». Mai la distanza è stata così evidente. Tra il papa silenzioso sulla piazza del Family Day, per nulla impaziente di benedire lo scontro con il mondo politico. E Bagnasco, solitamente prudente, che arriva a chiedere in pubblico il voto segreto in Senato sulla stepchild adoption.
Un’invasione di campo, uno sforamento sul terreno della tattica parlamentare degna del capogruppo di un partitino minore, non del presidente della Cei. Uno strappo che fa male: il papa non ha ricevuto, com’è prassi, Bagnasco prima dell’ultima riunione del consiglio permanente, la direzione della Cei. E non andrà neppure al congresso eucaristico nazionale previsto a Genova, la città del cardinale. Se si ragionasse in termini politici, si potrebbe concludere che la guida della Chiesa italiana, nei giorni del dibattito sulle unioni civili è passata all’opposizione rispetto al suo leader che vive a Santa Marta. Ma non tutta, non in modo monolitico.
Da una parte c’è Bagnasco, dall’altra il segretario generale Nunzio Galantino, il numero due della Cei, l’interlocutore privilegiato del papa nell’episcopato italiano. Divisi sulle unioni civili, sia sulla tattica che sulla strategia, ma più ancora sul modo di essere presenti nel dibattito politico e sul ruolo dei vescovi. Fragoroso Galantino, felpato Bagnasco. Qualcuno dice che i due siano arrivati negli ultimi tempi a non scambiarsi più una parola. «Non si parlano? Di certo non si prendono», raccontano alla Cei.
Galantino, capofila del nuovo corso, è accusato di modi troppo spicci, di scarsa diplomazia, di aver preso fin troppo sul serio il suo ruolo, di non sapersi scegliere i collaboratori. E le critiche arrivano non solo dai fedelissimi di Ruini e di Bagnasco, ma anche da vescovi che in via di principio condividono le stesse posizioni ma non apprezzano il metodo.
Un caos calmo che sconvolge la Chiesa italiana da tre anni, da quando cioè fu eletto papa l’arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio. Di origine piemontese, ma arrivato dalla fine del mondo dal punto di vista del prelato medio italiano. Che sospira nelle conversazioni riservate: «Per la prima volta viene messo in discussione il nostro ruolo pubblico». Un sentimento di angoscia, di timore, di paura. Quasi un paradosso. Bisogna risalire all’inizio del pontificato di Karol Wojtyla per ritrovare un simile protagonismo a livello mondiale della Chiesa, con Francesco che arriva a spingersi verso i confini delle città proibite, Mosca e Pechino. Ma in Italia, invece, nella nazione che ospita il centro della cristianità, si avverte il rischio di quella che Ruini chiamava «l’irrilevanza». Non avere più una voce ascoltata nel dibattito pubblico, come da tempo accade nel resto d’Europa.
«Un’Italia adulta», titolava a caratteri cubitali “Avvenire” martedì 14 giugno 2005, dopo il trionfo sui referendum sulla legge sulla fecondazione assistita, la grande rivincita cattolica. Sopra il titolo, una cifra segnata in rosso: 74,1 per cento. Gli italiani che non erano andati a votare, come consigliato da Ruini. Oggi il quotidiano della Cei, diretto da Marco Tarquinio, è impegnato in una difficile opera di mediazione tra diverse spinte. Tra il rifiuto di accodarsi ai settori più estremisti e la necessità di dare voce allo spaesamento del mondo cattolico. Sul voto segreto, ad esempio, Tarquinio ha chiesto ai senatori «consapevolezza, coerenza e trasparenza», ovvero ognuno si prenda le sue responsabilità senza manovre e franchi tiratori. Una posizione di equilibrio. Mentre i vescovi litigano e si spaccano, con il rimescolamento degli antichi schieramenti.
Al centro, nel cuore dell’apparato di circonvallazione Aurelia, sede della Cei, ci sono il cardinale Bagnasco e la filiera più anziana. Nel Consiglio permanente, la direzione, ci sono tra gli altri i cardinali Crescenzio Sepe di Napoli e Angelo Scola di Milano, Cesare Nosiglia di Torino, Giuseppe Betori di Firenze e Agostino Vallini, il vicario del papa a Roma, più Francesco Moraglia di Venezia. Esponenti di spicco di una stagione passata, arrivati nelle loro diocesi tra la fine del pontificato di papa Wojtyla e gli anni di papa Joseph Ratzinger. Sono considerati bergogliani Gualtiero Bassetti, Edoardo Menichelli e Francesco Montenegro, nominati cardinali a sorpresa dal papa argentino, e il neo-arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi.
Ma in realtà nell’episcopato italiano non esiste una corrente che risponde a papa Francesco, come si è visto in occasione del Family Day. Il cardinale Bassetti ha difeso il diritto di scendere in piazza dei cattolici e ha letto in pubblico l’appello dei promotori. Un vescovo da sempre catalogato come progressista, o addirittura una tonaca rossa, monsignor Giancarlo Bregantini, ha stupito tutti guidando i fedeli della sua diocesi (Campobasso) al Circo Massimo. Freddo,invece, è rimasto don Paolo Gentili, il ministro della Famiglia della Cei. A conferma che le spaccature ecclesiastiche non ricalcano più le definizioni tradizionali.
A destra restano vescovi come il super-ciellino Luigi Negri, vescovo di Ferrara, che fu ascoltato in treno inveire contro le ultime decisioni di Bergoglio: «Dopo le nomine di Bologna e Palermo posso diventare papa anch’io. È uno scandalo. Non ho mai visto nulla di simile».
Molti altri vescovi condividono. Ci sono prelati che escono sconvolti dalle messe del mattino del papa. E vorrebbero una rinascita delle associazioni e dei movimenti, dall’Azione cattolica alle Acli a Comunione e liberazione, che liberino l’episcopato dall’obbligo di prendere posizione. Mica facile: sono usciti devastati da vent’anni di ruinismo e dalla crisi di tutte le associazioni, in crisi di iscritti, radicamento sociale, leadership, rappresentanza pubblica.
Più probabile che il cambiamento arrivi dall’alto. A colpi di nomine papali. Nei corsi di preparazione per i vescovi di prima nomina, organizzati dal Vaticano per i nuovi eletti, non solo italiani, l’elenco delle materie si è allungato negli ultimi anni: «Prima bastava la dottrina, poi sono arrivate le lezioni di amministrazione, la buona gestione delle finanze, resa necessaria dal dissesto economico di molte diocesi. Oggi, con Francesco, l’agenda si è infittita», raccontano. Ma intanto si allarga la distanza tra il papa e la vecchia generazione degli italiani.
Alla Cei e in Vaticano, dove il grosso dei dicasteri non è stato minimamente sfiorato dalla rivoluzione bergogliana. Sulla legge in votazione al Senato si gioca anche questa partita, più complessa di quella che tocca alla politica italiana e a Renzi. Chi avrà l’egemonia nella Chiesa italiana nei prossimi anni, con tanti vescovi arrivati quasi ai limiti di età. Unioni civili per divisioni ecclesiastiche. E nella Cei e in Vaticano c’è perfino chi si butta sul Movimento 5 Stelle: «Al Senato più bravi loro dell’Ncd». L’ultima tentazione.