A Roma al via il festival Diplomacy, otto giorni di incontri e dibattiti per capire come opporsi alle nuove leadership demagogiche nel mondo. A inaugurare la manifestazione, l'artista Michelangelo Pistoletto: «Diplomazia e arte hanno lo stesso significato, superare i contrasti per creare qualcosa di nuovo»

«Seconda regola della diplomazia: non c'è una seconda regola della diplomazia» ammonisce lo scaltro Frank Underwood di House of Cards. Una massima quasi certamente condivisa dagli organizzatori di “Diplomacy”, il festival che fino al 27 ottobre animerà ambasciate e atenei romani con incontri e dibattiti. Quest'anno gli ospiti si interrogheranno su come la diplomazia internazionale può sopravvivere e operare nell'epoca del populismo galoppante. L'apertura ufficiale del festival, ormai da diverse edizioni riservata a personaggi del mondo della scienza e della cultura, è affidata a Michelangelo Pistoletto: «Diplomazia significa innanzitutto accordare parti diverse» spiega l'artista all'Espresso, «e questo è anche il significato dell'arte, perché ogni contrasto è sempre l'occasione per arrivare a una sintesi e alla creazione di qualcosa di nuovo».
Michelangelo Pistoletto

Pistoletto è da sempre impegnato in progetti che sottolineano l'importanza della mediazione culturale come strumento in grado di favorire pace e dialogo. Tra i suoi lavori più emblematici c'è la scultura Love difference, un grande tavolo coperto di specchi che raffigura il bacino del Mediterraneo: «Una piattaforma con tante sedie diverse intorno, che rappresentano simbolicamente ognuno dei paesi che circondano il nostro mare, che non è altro che una catena che unisce tutti i popoli in una ricerca di equilibrio, di armonia e di rapporto pacifico». Sul valore dell'arte come occasione di incontro tra culture, l'artista non ha dubbi: «Si può interpretare la creatività in mille modi diversi. Si possono concepire opere individuali, che esprimono la sensibilità del singolo artista. Ma per me l'arte nasce nel rapporto tra gli individui, dovrebbe compenetrarsi con la società e avere la forza, simbolica e pratica, di mettere in connessione le persone. Questa è l'avanguardia».

La scelta di affidare a un artista di fama mondiale come Pistoletto l'apertura di Diplomacy ha un significato ben preciso, come racconta all'Espresso Giorgio Bartolomucci, segretario generale del festival: «Abbiamo scelto di contaminare il mondo della diplomazia con quello della cultura proprio per dimostrare come l'arte possa contribuire a creare condizioni di dialogo e di vita migliori per tutti. Dobbiamo uscire dalla logica secondo la quale le relazioni tra stati sono sempre e solo politiche. C'è molto di più. La cultura può davvero fare la differenza».

Riportare al centro il dialogo e il confronto tra i popoli, questa l'idea della rassegna, che alla sua ottava edizione propone otto giorni di tavole rotonde e di incontri con i maggiori esponenti del pensiero politico e sociale contemporaneo: da Daniel Drezner a Simon Anholt, da Giampiero Massolo a Gilles De Kerchove, coordinatore antiterrorismo dell'Unione europea dal 2007. E poi Gerald Knaus, Enrico Giovannini, Paolo Magri, Luciano Pellicani e Michael Klare. Ci saranno ovviamente anche ambasciatori e rappresentanti istituzionali, tutti alla ricerca di strumenti collettivi e idee e per superare l’ostilità crescente verso la politica e riaffermare i valori della cooperazione e della convivenza pacifica.

Un'opposizione, quella tra visione globale e nuove spinte demagogiche, richiamata già nel titolo della manifestazione, “prìncipi e princìpi”: «Due parole – spiega Bartolomucci – il cui significato muta radicalmente al semplice cambiamento di un accento. Da una parte ci sono princìpi che consideravamo consolidati, come quello della governance globale, del multilateralismo, della solidarietà, della lotta alle diseguaglianze. Questi ideali sono messi in discussione dai nuovi protezionismi, dai mai del tutto sopiti interessi nazionali, sempre più prevalenti rispetto all'attenzione al bene comune. È il modo di ragionare del principe, una visione miope, che si oppone a un mondo orientato verso il multilateralismo, verso accordi globali, verso un'integrazione del commercio. È la visione dei nuovi populismi».

Non è un mistero che negli ultimi anni siano emerse figure di potere “forte”, che stanno cambiando profondamente, mettendole spesso in crisi, le regole alla base delle relazioni internazionali. E non c'è solo Donald Trump. «Sarebbe interessante analizzare anche la figura del presidente francese Macron – prosegue Bartolomucci – e il modo in cui ha gestito, ad esempio, tutta la questione di Fincantieri e Stx france. Anche quello è un esempio del nuovo spirito protezionistico, di come gli stati abbiano ricominciato ad anteporre le proprie necessità anche all'interno di istituzioni come l'Unione europea». Gli esempi si sprecano, c'è la Brexit e c'è soprattutto il grande tema dell'immigrazione: «Il blocco dei paesi che si oppongono alla redistribuzione dei migranti decisa dall'Europa è forse è l'esempio più lampante. Purtroppo il presidente Usa non è l'unico a mandare questo tipo di messaggi. Ci sono tante piccole dimostrazioni che nella politica di oggi la ricerca di un facile consenso interno sta diventando prevalente».

Oltre al tema della leadership, di immigrazione e di cultura, si parlerà anche di difesa, di cybersecurity e di libero scambio. Sempre con un'attenzione particolare all'importanza essenziale di mantenere un dialogo tra le nazioni in questo confuso momento storico. Un obiettivo, aldilà degli spot elettorali, necessario a mantenere la stabilità sullo scacchiere internazionale. «La diplomazia, sia essa economica, culturale o sportiva, ha una visione universale e di lungo termine e oggi più che mai deve continuare a lavorare, dietro le quinte, indipendentemente dagli eventi politici contingenti. Si sta delineando una specie di doppio binario: da una parte la politica degli slogan e del consenso, dall'altra la realtà, che necessita della diplomazia, perché altrimenti il mondo si fermerebbe».