Un aereo sulla zona del disastro. Sotto gli occhi del piloti, il barcone sta per affondare. E Nave Libra non interviene

Sono l’ex maggiore George Abela e non ho bisogno di interpreti. Si presenta così, in un buon italiano, il testimone che ha assistito alla fuga di nave Libra: l’11 ottobre di quattro anni fa il pattugliatore della Marina militare non avrebbe risposto all’obbligo di soccorrere 480 persone, tra cui cento bambini, alla deriva su un peschereccio che stava affondando. Le sue parole sono la prova che da lassù, dall’aereo ricognitore maltese King Air B200 in volo sopra il punto geografico dell’emergenza, hanno visto tutto. E sono la dimostrazione che le due Procure italiane che hanno indagato sul disastro, Agrigento e Roma, non hanno mai chiesto la collaborazione delle autorità maltesi per accertare le eventuali responsabilità nella morte di 268 siriani, tra i quali 60 bambini. L’inchiesta l’ha invece fatta L’Espresso: è bastato cercare a Malta e lì abbiamo trovato le risposte alle nostre domande. La testimonianza di George Abela è una delle rivelazioni più sconvolgenti del film “Un unico destino”, che andrà in onda in prima assoluta domenica 15 ottobre alle 21.15 su SkyAtlantic.
Confini
Il grande massacro: il film evento
9/10/2017

L’11 ottobre 2013 il maggiore pilota Abela è il comandante dell’aereo ricognitore inviato dal Centro coordinamento soccorsi di Malta a verificare le condizioni di galleggiabilità del peschereccio. Alla cloche accanto a lui è seduto il copilota, il capitano Pierre Paul Carabez, secondo quanto riportano i registri di servizio di quel pomeriggio. Dietro di loro, i tecnici dell’equipaggio, addetti alle apparecchiature elettroniche di avvistamento. Il King Air è in volo da più di mezz’ora sul mare. La sala operativa di Roma della Guardia costiera italiana, che ha ricevuto la prima richiesta di aiuto dal peschereccio alle 12.26, ha passato l’intervento alle Forze armate di Malta: perché formalmente il punto geografico dell’emergenza è nella zona di competenza maltese per la ricerca e il soccorso. Anche se il barcone si trova a 61 miglia nautiche a Sud di Lampedusa e a ben 118 miglia a Sud Ovest di Malta.

La Guardia costiera, nel trasmettere le informazioni, non riferisce però due particolari fondamentali: il peschereccio ha già mezzo metro d’acqua nello scafo e sta affondando. Altre due ore vengono perse perché il fax italiano con cui viene chiesto l’intervento maltese non arriva a destinazione.Quando, alle quattro del pomeriggio, il maggiore Abela e il capitano Carabez vedono il barcone non sanno nulla di tutto questo. Ciò che più li stupisce è la presenza lì vicino del pattugliatore P402 Libra, comandato dal tenente di vascello Catia Pellegrino. Abela e Carabez non sanno nemmeno che il Comando in capo della Squadra navale della Marina militare ha già ordinato alla Libra di andare a nascondersi: cioè di scappare oltre l’orizzonte per non farsi vedere dalla motovedetta maltese in arrivo, che è ancora molto lontana. Il maggiore Abela fa puntare la potente telecamera di bordo sul peschereccio e contemporaneamente si attacca alla radio. Chiama e richiama gli ufficiali di Catia Pellegrino sul canale 16 Vhf marino riservato alle comunicazioni di emergenza. E ancora oggi, quattro anni dopo il naufragio, la sua testimonianza, mai confidata prima, è agghiacciante. George Abela la spedisce via email alle 10.17 del 27 giugno, nei primi giorni di preparazione del film. Da allora abbiamo fatto le dovute verifiche con quanto è scritto nei rapporti delle Forze armate di Malta. Adesso la possiamo pubblicare.
«Allora, io sono un ex maggiore dell’esercito maltese», premette George Abela, «e rispondo soltanto al mio governo. Io non mi fido di nessuno, nessuno. C’era una sola persona che aveva tutta la mia fiducia ed è morta 20 anni fa».
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La barca ha bisogno di aiuto
«Sì, sfortunatamente io ero lì e ho visto tutto e non posso mai dimenticare quel bambino che annegava molto lentamente, dopo essere stato messo giù da un adulto in stato di panico. Non posso dimenticare mai il numero di persone in diminuzione dopo ogni giro che abbiamo fatto con l’aereo. Non dimentico mai che alla mia prima chiamata radio avevo detto che la barca sembrava molto instabile e aveva bisogno di aiuto immediato. Loro ci avevano visto immediatamente ed era ovvio, tutti facevano segnali con le loro t-shirt e altre cose. Dopo un’ora e quattro minuti (di sorvolo), la barca si è capovolta e non siamo stati noi a provocarlo. In quel momento l’aereo stava in autopilota in orbita sopra la barca a chissà quale quota. Con il nostro apparecchio a bordo non c’è più bisogno di volare basso a osservare».

Quel pomeriggio, quel volo, quei bambini che scompaiono sott’acqua sono un punto di non ritorno nella vita di George Abela. «Questo evento», continua nella sua testimonianza, «è stato uno dei tanti fattori che mi ha fatto decidere di lasciare il mio lavoro. Ho realizzato che io sono soltanto una pedina su una scacchiera e Frontex e la collaborazione tra Paesi sono soltanto uno scherzo pieno di merda».

Il comandante del King Air B200, uno dei più bravi piloti istruttori delle Forze armate di Malta, è stato coerente con il suo disgusto. Si è congedato ed è diventato l’ex maggiore George Abela: «Non dimentico mai la sensazione di disperazione e il senso di non poter fare qualcosa in più durante l’evento. Ma», confida ora, «devo vivere con questo incubo. Noi abbiamo fatto il nostro meglio. La nostra motovedetta stava a due ore quando abbiamo trovato il target (il peschereccio), la Libra era soltanto a circa trenta, quaranta minuti. Ho chiamato la Libra sul canale 16 tantissime volte, ma nessuna risposta. Allora, io mi fermo qui. Risponderò soltanto al mio governo che tiene le prove di tutto questo».

Non è stato semplice far parlare il più importante testimone della fuga degli ufficiali italiani davanti al loro dovere. Lo abbiamo rintracciato con l’aiuto di un suo ex collega. Gli abbiamo chiesto di rispondere alle nostre domande. Ma in quei giorni di inizio estate l’ex maggiore Abela ha paura. Sa che lui, il capitano Carabez, il loro equipaggio e tutte le Forze armate di Malta hanno risposto alla richiesta di emergenza in modo impeccabile. Hanno fatto di tutto per convincere le autorità italiane a rispettare la legge del mare e a inviare nave Libra. Ma tutti i militari a Malta sanno anche che i politici sull’isola non la pensano come loro. Il governo maltese ha indirettamente ricavato i suoi benefici dal naufragio dell’11 ottobre: da fine 2013, dall’operazione di salvataggio “Mare nostrum”, l’Italia si è fatta carico di tutti i barconi che hanno attraversato il Mediterraneo. E a Malta non è sbarcato più nessuno, tranne rare eccezioni. Perché rovinarsi i rapporti con il governo italiano mettendo a disposizione documenti, registrazioni video, comunicazioni radio del più grande massacro di civili di cui è accusata la nostra Marina militare? E così il muro del silenzio ha retto quattro anni. Un silenzio rotto oggi dal film prodotto dall’Espresso, Repubblica, Sky e realizzato da 42° Parallelo.

Se un magistrato italiano volesse indagare fino in fondo, a Malta troverebbe ciò che è necessario sapere. Le Forze armate conservano scrupolosamente i rapporti dell’operazione, le registrazioni delle comunicazioni, le videoriprese del King Air. Ci sono perfino le fotografie fatte scattare dal comandante Abela a nave Libra mentre si sta allontanando, con la prua puntata in una direzione diversa da quella del peschereccio sovraccarico e molto instabile. Foto che L’Espresso ha potuto vedere.

All’inizio, però, George Abela non ha proprio voglia di parlare. «Non ho ucciso nessuno», si confida con un amico, «ho fatto del mio meglio per chiedere aiuto, ho lanciato il battellino gonfiabile di bordo e ho osservato in preda alla disperazione. Abbiamo anche pianto. Ma non potevamo fare altro che gettare l’unico battello che avevamo. Ho chiuso, mi sono congedato. Se parlo, nessuno mi difenderà. Risponderò soltanto al mio governo».

La porta dell’anima
Se l’ex maggiore Abela non vuole svuotare la scatola dei suoi ricordi, nemmeno il capitano Carabez può parlare: è ancora in servizio ed è vincolato al segreto. Sembra così che da Malta non arrivi nessuna buona notizia. È il 26 giugno. Mazen Dahhan, Ayman Mostafa e Mohanad Jammo hanno accettato di aprire la porta della loro anima, dei loro incubi, dell’indicibile. Lì dentro hanno chiuso il loro passato che continua a svegliarli la notte e a inseguirli a occhi aperti di giorno. Un’altra persona, un altro papà al loro posto avrebbe pensato al suicidio e raggiunto i suoi bambini. Loro sono medici fino in fondo: hanno fatto un giuramento con la vita e non la tradiscono. Non amano mettersi in mostra. Non lo vorrebbero mai fare. Ma se il film è l’unico mezzo per ricostruire i fatti allora sì, non si tireranno indietro. Dopo le richieste di archiviazione delle Procure di Agrigento e Roma a favore degli ufficiali della Marina militare e della Guardia costiera, avevano perso la speranza di ottenere almeno un processo per i loro bambini. Negli stessi giorni però la ritrovano grazie al giudice per le indagini preliminari di Agrigento, Francesco Provenzano. Il gip siciliano ha stabilito che si è trattato di omicidio, con dolo eventuale. E ha trasmesso gli atti per competenza a Roma, dove un altro giudice si pronuncerà il prossimo 27 ottobre. Il bisogno di giustizia dei sopravvissuti si è infatti scontrato con la terza richiesta di archiviazione per gli ufficiali indagati, tra cui Catia Pellegrino: secondo la Procura romana tutto quello che è successo e si può sentire nelle comunicazioni registrate non costituisce reato.

Di fronte al coraggio dei tre papà un pilota che ha fatto così tanto per evitare la loro morte non può a sua volta scappare. Riproviamo a convincere l’ex maggiore Abela nella tarda serata del 26 giugno. La mail che gli mandiamo, in inglese, è diretta, personale. Sono stato per un breve periodo in Accademia aeronautica, prima di dare le dimissioni: 101° corso ufficiali piloti, era il 1987, l’anno del corso Grifo. È la chiave giusta. «Anch’io sono stato a Latina», risponde in italiano nel giro di poche ore George Abela, «corso Nova, nel 1992, sugli SF260 dell’Aeronautica militare e dopo ho anche fatto Viterbo, corso pilota osservatore». Comincia proprio così la sua confessione.

Il risveglio degli incubi
Adesso tocca ai governi fare la loro parte. Il premier maltese Joseph Muscat deve rassicurare pubblicamente i testimoni. E i suoi ministri devono fare in modo che i documenti sul massacro siano trasmessi all’autorità giudiziaria italiana. Come presto chiederanno gli avvocati Alessandra Ballerini e Emiliano Benzi, che assistono i familiari delle vittime.

Una sera tardi, dopo ore di riprese in un piccolo paese a Nord di Göteborg in Svezia, Mazen Dahhan apre la porta del suo appartamento dove da allora vive solo. «Forse quegli ufficiali hanno sbagliato?», chiede: «Io sono un medico, so che un errore è sempre possibile. Ma non riesco a capire la perdita di tempo. Se invece di correre in sala operatoria, mi allontano e il paziente muore, io sono responsabile. È l’assurda banalità di quello che è successo a tormentarmi. Abbiamo atteso cinque ore i soccorsi, ho poi saputo che la nave italiana poteva salvarci in 45 minuti. Erano così vicini e ci hanno lasciati morire».