Il naufragio dell'ottobre del 2013 costato la vita a 268 persone lascia aperti troppi interrogativi. E un sospetto, legato ai vantaggi ottenuti dai militari con l'inizio della missione Mare Nostrum

Il più alto in grado nella catena di comando viene nominato soltanto nei primi interrogatori. È il contrammiraglio Francesco Sollitto, 58 anni, allora sottocapo di Stato maggiore del Comando in capo della Squadra navale della Marina militare: uno scioglilingua per indicare il numero due del quartier generale di Roma, che dirige tutte le navi da guerra in movimento e le missioni in corso.

Il suo nome lo fanno gli ufficiali superiori messi a verbale dalla Procura di Palermo. Il fascicolo sul naufragio dei bambini infatti è ancora in Sicilia in quei mesi. E il contrammiraglio Sollitto lo nomina anche il suo diretto sottoposto, il capitano di fregata Luca Licciardi, 47 anni. Licciardi è il comandante delle operazioni che l’11 ottobre 2013, mentre il peschereccio con 480 siriani a bordo sta affondando, ordina a nave Libra, vicinissima, di andare a nascondersi. È sua la voce nel film “Un unico destino”, prodotto da L’Espresso e Repubblica con 42° Parallelo e Sky. Alla domanda di un collega su cosa ordinare a nave Libra, lui risponde: «Che non deve stare tra i coglioni quando arrivano le motovedette» maltesi. Licciardi, sentito allora come testimone, parla di Sollitto: «In casi come questo... viene avvisata la catena gerarchica, nello specifico la figura dell’ammiraglio Sollitto».

Una volta trasferito il fascicolo da Palermo a Roma per competenza territoriale, però, il livello degli ammiragli esce dall’inchiesta. I sostituti procuratori romani non hanno mai ritenuto necessario convocare Sollitto come testimone. Eppure i vertici della catena di comando potrebbero aiutare a rispondere a una domanda fondamentale: perché prima e dopo l’11 ottobre di quattro anni fa la Marina italiana si è sempre fatta carico degli interventi di soccorso, anche quelli coordinati da Malta, tranne quel giorno?

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Un indizio c’è. L’abbiamo trovato nelle copiose dichiarazioni consegnate all’agenzia Ansa dall’allora capo di Stato maggiore della Marina, ammiraglio Giuseppe De Giorgi, prima e dopo il naufragio in cui a poche miglia da nave Libra quel pomeriggio annegano 268 persone scappate dalla Siria. Sessanta i bambini scomparsi in mare. È questo il clima che influenza le decisioni degli ufficiali: da settimane l’ammiraglio De Giorgi batte cassa al governo e dopo l’altra tragedia di Lampedusa, avvenuta una settimana prima il 3 ottobre, la Marina militare sostiene che senza nuovi investimenti non può affrontare i compiti di soccorso. Insomma, che sia Malta a uscire, anche se è molto lontana da Lampedusa e dal quadrante meridionale del Mediterraneo. Il braccio di ferro di De Giorgi, prima con il premier Enrico Letta e poi con Matteo Renzi, alla fine assicura alla Marina una valanga di soldi.

Primo risultato: il 18 ottobre 2013 la famosa operazione “Mare nostrum” sposta per un anno la prima linea delle attività dalla Guardia costiera alla Marina militare, con relativi stanziamenti, indennità di missione, manutenzioni, riflettori e riconoscimenti. Secondo risultato, il più importante: a fine 2013 e 2014 l’ammiraglio De Giorgi ottiene il finanziamento del suo “Programma navale per la tutela della capacità marittima della Difesa”. Significa: contratti per la costruzione di nuove navi da guerra e soccorso, per un costo a carico dello Stato di quasi sette miliardi. All’inizio della sua campagna mediatica, De Giorgi di miliardi di spesa ne pretende dodici. Fare lobby e chiedere nuove navi non è certamente reato. A essere cinici, però, potremmo pensare che senza i sessanta bambini morti tra i 268 passeggeri annegati l’11 ottobre 2013 non ci sarebbe stata “Mare nostrum”. E senza “Mare nostrum”, la Marina militare non avrebbe potuto giustificare l’urgenza di quel finanziamento da sette miliardi di euro, approvato mentre lo Stato accorpa scuole, chiude ospedali, taglia ricerca, assunzioni e pensioni.
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Da lunedì 13 novembre, con il deposito della decisione del giudice per le indagini preliminari di Roma, Giovanni Giorgianni, il capitano di fregata Licciardi non è più un testimone: è l’unico ufficiale della Marina di cui la Procura dovrà chiedere il processo, su ordine di Giorgianni che ha disposto l’imputazione coatta. Imputato con lui, il capitano di vascello Leopoldo Manna, 56 anni, comandante della centrale operativa di Roma della Guardia costiera, come richiesto dagli avvocati delle vittime, Alessandra Ballerini, Emiliano Benzi e Arturo Salerni. Sono accusati di omicidio colposo di più persone e omissione di atti d’ufficio. Omissione intesa come il mancato tempestivo soccorso che avrebbero dovuto garantire.

Il giudice ha invece deciso di archiviare il procedimento contro l’ammiraglio Filippo Maria Foffi, 64 anni, diretto superiore di Sollitto, perché quel giorno era estraneo alla catena di comando. Archiviati anche i procedimenti contro gli ufficiali della Guardia costiera Clarissa Torturo, 40 anni, e Antonio Miniero, 42, e della Marina, Nicola Giannotta, 43: hanno soltanto eseguito gli ordini dei superiori.

Vedremo ora se il capitano di fregata Licciardi accetta di finire a processo in nome di tutta la Marina. Oppure se i clamorosi ordini che ha dato a nave Libra sono stati suggeriti o sono il frutto di una direttiva politica. Perché soccorrere un peschereccio significa poi farsi carico di tutti i salvati. E in quei giorni dopo il naufragio del 3 ottobre anche il governo, primo fra tutti l’allora ministro dell’Interno, Angelino Alfano, vuole dimostrare all’Europa che l’Italia da sola non ce la può fare.

Una premessa: una volta ricevuta l’informazione che il barcone si è rovesciato, la Marina e nave Libra fanno tutto il possibile per soccorrere i sopravvissuti. L’attenzione va indirizzata su quello che è avvenuto nelle cinque ore precedenti. Tra le 12.26, ora della prima telefonata del dottor Mohanad Jammo dal peschereccio che sta affondando. E le 18, momento in cui nave Libra che si trovava a meno di un’ora di navigazione arriva in grave ritardo sul punto, addirittura 53 minuti dopo il ribaltamento.

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Su questo ritardo, non tutti dentro il Comando della Squadra navale la pensano allo stesso modo. Il capitano di fregata Francesco Marras, all’epoca comandante responsabile del centro operativo della Marina, risponde così ai pubblici ministeri di Palermo, Claudio Camilleri e Gaspare Spedale che lo interrogano come testimone: «Io se sono comandante di una nave mercantile... sto transitando in area e ho notizia di una scena Sar (Ricerca e soccorso), chiaro, sono un pirata se faccio finta di niente e me ne vado». Lo stesso obbligo di soccorso riguarda i comandanti militari in mare e chi da terra li dirige. Come conferma il collega della sala operativa della Guardia costiera, Leopoldo Manna, oggi imputato, durante l’interrogatorio a Palermo: «Se una nave militare viene a sapere della necessità di soccorso, deve intervenire... Per la Guardia costiera una imbarcazione con numero cospicuo di migranti a bordo è comunque un evento Sar, siamo tenuti ad attivare l’evento Sar», cioè l’operazione di ricerca e salvataggio. Un’accusa indiretta. Guardia costiera contro Marina militare. Esattamente come quattro anni fa. Quando l’ammiraglio De Giorgi lancia la sua campagna perché il governo affidi le operazioni di soccorso alla sua forza armata.

Eccolo a Brindisi il 9 settembre 2013: «La Marina attraversa oggi uno dei momenti più difficili della sua storia postbellica. A causa della progressiva scomparsa della flotta, dovuta al protrarsi del sottofinanziamento dei programmi di costruzione navale... Tutte le nostre energie saranno devolute a trovare le risorse e il consenso a livello nazionale affinché la nostra Marina possa rinascere». Il 19 settembre a La Spezia: «Se non ci saranno investimenti sostanziosi, fra dieci anni l’Italia perderà la propria capacità marittima. Siamo una specie in via d’estinzione». Il 4 ottobre a Genova, il giorno dopo il naufragio di Lampedusa: l’ammiraglio propone di «utilizzare la centrale operativa del comando della Squadra navale a Roma, per ottimizzare i mezzi in mare e mettere a sistema le informazioni sulle situazioni che si vengono a creare». È esattamente quello che accadrà di routine con l’avvio di “Mare nostrum”. Ma è ancora presto.
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L’11 ottobre, mentre il peschereccio dei bambini sta affondando, la sala operativa offerta da De Giorgi risuona come un teatro di cabaret da due soldi: «Te lo chiami al telefono», ordina Licciardi riferendosi al pattugliatore Libra: «Oh, stanno uscendo le motovedette, non farti trovare davanti ai coglioni delle motovedette che sennò questi se ne tornano indietro...». Altro ordine di Licciardi quel pomeriggio: la Libra va tenuta a una distanza «tale da poter vedere se sta pisciando in un cestino di frutta...». E ancora, dopo che i maltesi supplicano l’invio del pattugliatore italiano: «Digli vabbè, ’sti cazzi, ti facciamo sapere, stand by, stand by». Durante gli interrogatori gli ufficiali dichiarano però che mai i colleghi maltesi hanno fatto dietrofront alla vista di una unità di soccorso italiana. Possibile che Licciardi decida tutto da solo?

Dopo i 366 morti del 3 ottobre e i 268 dell’11 ottobre, la porta del Consiglio dei ministri finalmente si apre. «Abbiamo dato il via all’operazione Mare nostrum», annuncia all’Ansa alle 19.11 del 14 ottobre il ministro dell’Interno, Angelino Alfano. Il 18 ottobre è l’inizio della missione umanitaria. La campagna di De Giorgi ottiene risorse e consenso. Quel giorno l’ammiraglio scavalca addirittura il governo: «La Marina militare», dichiara a Genova, «chiede all’Italia un piano di investimenti di dodici miliardi in dieci anni». Non lo cacciano, anzi lo premiano. Il capo di Stato maggiore in congedo dal 2016 lo scrive nella sua biografia pubblicata sul sito personale “AmmiraglioGiuseppeDeGiorgi.it”: «Da capo di Stato maggiore della Marina... ha promosso e ottenuto dal governo e dal Parlamento, nell’ambito della legge di stabilità del 2013, un finanziamento speciale di 5,3 miliardi per il rinnovo della flotta, confermato e integrato a 6,7 miliardi, nell’ambito della legge di stabilità del 2014».

Tra tanti impegni, c’è posto per occuparsi della carriera di Catia Pellegrino, 41 anni, la prima donna italiana a comandare una nave militare. Ed è proprio la Libra. Il 15 ottobre 2013, quattro giorni dopo il massacro, la Marina pubblica su Youtube un minidocumentario autoprodotto. Titolo: «Io Catia, donna, ufficiale e ora comandante di nave Libra». Partecipa De Giorgi in persona. Ovviamente nel video nessuno rivela che alla Libra, poche ore prima, hanno dato l’ordine di nascondersi davanti al dovere di soccorrere famiglie e bambini.

È l’inizio della costruzione del mito. E del muro di gomma che ha retto quattro anni. La comandante Pellegrino, nel frattempo promossa e premiata con l’onorificenza di ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, resta indagata su ordine del giudice Giorgianni: la Procura romana di Giuseppe Pignatone deve ora accertare se nell’unico interrogatorio ha detto la verità.