Nel suo ultimo libro compie un viaggio in un mondo senza vaccini. Come si viveva allora?
Prima di ogni considerazione, mi permetta di ricordare che, per quanto “preistorico” e “primitivo” quel mondo possa sembrare, esso risale in alcuni casi a solo qualche decennio fa. Basta interpellare i nostri nonni per conoscere storie tragiche di morti per tetano o di invalidità permamenti causate dalla poliomielite. Lo stesso vaiolo, eradicato ufficialmente nel 1980, ha causato centinaia di milioni di morti a livello globale nel XX secolo. Quel mondo, inoltre, esiste ancora nei paesi meno sviluppati, in cui la possibilità di accesso alle vaccinazioni è molto limitata. Il mondo senza vaccini era caratterizzato da un predominio incontrastato della natura, con i suoi fenomeni patologici, sull’uomo e sulla civiltà. L’assenza di vaccinazioni e antibiotici, le malsane condizioni igieniche e di vita e le guerre continue, rendevano la vita umana estremamente fragile.
Una situazione che è cambiata nel tempo grazie al lavoro degli scienziati.
Da un punto di vista storico è molto toccante, quasi commovente, pensare alla lotta eroica, titanica, dei pionieri della medicina – penso a von Behring, Jenner, in Italia Sacco – contro patogeni potentissimi. Le loro scoperte, in primis l’introduzione delle vaccinazioni, hanno segnato una cesura, un vallo munitissimo, tra il mondo pre-vaccinale e quello attuale. Lo scienziato non dovrebbe essere preso né mostrare emozione, ma quando si pensa a questo animaletto, l’uomo, che piega la natura al suo volere, che repelle patogeni ben più mortiferi e potenti delle armi nucleari, è difficile rimanere impassibili. Il pensiero che oggi si voglia tornare indietro a quei tempi banalizzando in maniera sconsiderata il valore delle scoperte di scienziati che hanno dedicato la loro esistenza al progresso della civiltà, che hanno creato il mondo moderno, rattrista profondamente.

La situazione potrebbe essere tragica. Malattie che consideravamo sconfitte potrebbero tornare e rioccupare con la forza quello spazio che il progresso e la scienza hanno loro sottratto. Gli effetti nefasti si sommerebbero alla sempre maggiore resistenza agli antibiotici e a un’evidentissima epidemia di malattie degenerative in una popolazione europea e occidentale sempre più anziana. Alle volte si è superficialmente dell’opinione che malattie come la polio o la difterite siano sconfitte. Queste sono, invece, ancora lì, pronte a colpire non appena abbassiamo la guardia, non vaccinandoci. La storia del mondo senza vaccini è realmente tragica. La storia di quello post-vaccinale, nel caso in cui si rifiutassero le vaccinazioni, potrebbe essere ben più tragica.
Cosa pensa del dibattito sulle vaccinazioni obbligatorie che ha acceso l’opinione pubblica negli ultimi mesi?
Vivendo la diatriba dall’estero, non nascondo che i toni accesi e la violenza verbale del dibattito mi abbiano molto rattristato. Vedere manifestare contro i vaccini è terribile per un uomo di scienza. Ma in condizioni normali l’imposizione di nuove vaccinazioni da parte di uno stato non si verificherebbe. La reazione della comunità scientifica, e la conseguente azione legislativa, sono quelle che io definisco una “necessità storica”, dinanzi al calo generale delle coperture vaccinali, all’imbarazzante primato dei casi di morbillo in Italia, al dilagare delle pseudoscienze in rete. Ora, però, è opportuno ricondurre il dibattito sui binari di una fisiologica dialettica e la persuasione deve riavere il ruolo primario. Proprio per questo voglio portare la lezione della storia della medicina e della paleopatologia al grande pubblico. Ancora più che la presenza di informazione fallace in rete, io penso che lo scetticismo di molti genitori nei confronti delle vaccinazioni sia da attribuire al deficit di conoscenza storica, ossia occorre una riscoperta dell’effetto devastante delle malattie infettive nel mondo pre-vaccinale.
Il movimento “no-vax” però sembra sempre più forte.

Dottor Galassi, lei è un ricercatore in paleopatografia, una disciplina forse poco conosciuta ai più. Di cosa si occupa?
La paleopatografia, insieme alla paleopatologia, è la branca archeologica della medicina che studia la storia delle malattie. Il paleopatografo si occupa della ricostruzione dei segni, dei sintomi e delle malattie antiche, attraverso lo studio delle fonti storiche, archivistiche e artistiche. Spesso si studiano le biografie dei grandi personaggi del passato, perché ricche di dati biomedicali. La combinazione del dato storico con quello biologico offerto dalla paleopatologia classica, che si occupa dello studio dei resti mortali antichi, permette di identificare con grande precisione la manifestazione antica di malattie che ancora affliggono l’umanità e di valutarne i trend nel corso della storia e l’evoluzione stessa di queste malattie.
In che modo il suo lavoro incide sulla ricerca medica dei nostri giorni?
I dati ricavati ci consentono di avere una comprensione globale molto maggiore delle malattie infettive dalla natura epidemica o delle malattie degenerative associate all’invecchiamento, come i tumori o le malattie cardiovascolari. Un paragone che faccio spesso nelle mie conferenze è quello della cartina geografica. Oggi viaggiare, spostandosi da un punto all’altro del globo, è intuitivo, semplice e standardizzato. Un tempo non era così. Se possiamo farlo, lo dobbiamo alle scoperte dei geografi e dei viaggiatori che hanno descritto il pianeta terra, con le sue terre, mari, fiumi ed oceani. Lo stesso vale per la medicina. Al giorno d’oggi conosciamo moltissimo sulle malattie, sappiamo in moltissimi casi come combatterle e prevenirle. Ma conosciamo ancora molto poco sulla loro storia, sulla loro origine e su quei fattori che ne hanno determinato la forma attuale. Più impariamo dalla storia, meglio comprendiamo il presente e il futuro e maggiore sarà la nostra superiorità sulla natura e sui fenomeni patologici.
Come ci si sente ad essere inserito dalla rivista statunitense Forbes tra gli under 30 che cambieranno l’Europa nell’ambito della scienza e della salute?
E’ una grande responsabilità. Preferisco però vivere questo come un riconoscimento ai tanti paleopatologi e storici della medicina nel mondo. Interpreto, quindi, la grande esposizione mediatica che è conseguita alla premiazione più come una soddisfazione personale, come una opportunità per raccontare al grande pubblico ciò di cui ci occupiamo e il valore delle nostre ricerche. E’ bello quanto giovani colleghi mie coetanei decidono di seguire questo percorso. Poca favilla gran fiamma seconda, scriveva Dante.
Da molti anni non lavora in Italia. L’università e i centri di ricerca italiani le avrebbero dato le stesse opportunità che ha trovato all’estero?
Forse no. Ma lasciai l’Italia dopo la laurea, già sul finire degli studi trascorrevo molto tempo in Gran Bretagna per formarmi e fare ricerca. Allo stesso tempo, senza la formazione liceale e universitaria italiana non sarei forse dove sono oggi. Al contempo riconosco che i paleopatologi italiani sono tra i migliori in Europa.